Quest'anno Pasqua per tutti e tutte insieme

Simbologia (o non) di un appuntamento

04 marzo 2025  |  Elena Ribet

(nev/ve) Quest’anno la Pasqua unisce simbolicamente le principali tradizioni cristiane, cattolica, protestante e ortodossa, sotto una stessa data. Ad Alessandria d’Egitto la Commissione Fede e Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC) si riunirà in un appuntamento che rappresenta il fulcro delle attività del CEC in occasione del 1700° anniversario del primo Concilio ecumenico di Nicea. Il 2025 inoltre, per la chiesa cattolica, è diventato “giubilare”.
In questo contesto, abbiamo posto qualche domanda al pastore valdese Pawel Gajewski, coordinatore della Commissione consultiva per le relazioni ecumeniche delle chiese battiste, metodiste e valdesi in Italia, per riflettere su unità liturgica e dialogo, commemorazioni, ecumenismi, rapporti con l’ebraismo.

Quali passi avanti reali ci si possono aspettare da questa “Pasqua comune” sul fronte dell’unità cristiana e della riflessione teologica?
La terminologia corretta sarebbe Pasqua orientale e Pasqua occidentale, e personalmente non mi aspetto cambiamenti radicali. Anche se per il cattolicesimo questo è l’anno del Giubileo e per l’Oriente e l’Occidente cristiano è l’anniversario del Concilio di Nicea, peraltro la coincidenza delle due Pasque non è una novità, è già accaduto in passato. Ho l’impressione che il cammino verso un accordo permanente sia ancora lungo: è possibile? Non credo che accadrà quest’anno, per quanto sarebbe un’occasione speciale.

Il Concilio di Nicea (325 d.C.) ha avuto un ruolo decisivo nella storia cristiana e quest’anno si celebrano i 1700 anni da quell’evento. Quali riflessioni si stanno sviluppando su questo anniversario e sulla possibilità di trovare cammini in comune per il futuro?
Il Concilio di Nicea ha unito il cristianesimo, ma ha anche segnato la prima divisione: da un lato i cristiani fedeli alla dottrina nicena, dall’altro gli ariani, poi esiliati oltre i confini imperiali. Con le invasioni barbariche, l’arianesimo è riemerso e, alla fine del settimo secolo, in Italia convivevano due cristianesimi: quello legato ai primi concili fino a Calcedonia e quello ariano, che rifiutava formulazioni dogmatiche.
Da valdese, vedo il punto di vista del mito di fondazione di una minoranza cristiana che rifiuta il modello costantiniano della Chiesa. Nicea fu convocato da Costantino per stabilire con chiarezza ciò che ogni cristiano doveva credere e professare pubblicamente. Questo solleva una questione ancora attuale: fino a che punto un potere secolare — che sia un sovrano, un parlamento o uno Stato — può intervenire su questioni di fede? Il rischio di ingerenza riguarda non solo il cristianesimo, ma anche Islam, ebraismo e buddismo. Personalmente ritengo che nessun potere secolare dovrebbe mai stabilire dottrine religiose.

Spesso il mondo cristiano celebra ricorrenze e anniversari che, storicamente, risultano discutibili: ad esempio, si propone di festeggiare i 2000 anni dalla resurrezione di Cristo nel 2033, ma sappiamo che Gesù sarebbe nato intorno al 4 a.C. e quindi anche la data di morte sarebbe diversa. Come si collocano le chiese in questo scenario, e quanto pesa il bisogno di certezze simboliche rispetto alla ricerca storica e teologica?
Lo scenario è simbolico, storico e teologico. Il 2033 segnerà il 2000° anniversario della morte e risurrezione di Gesù, ma celebrazioni e manifestazioni religiose si sono già svolte nel 2000. Sono date fortemente simboliche, appunto, ma non storicamente fondate: sia la nascita di Gesù sia la sua crocifissione andrebbero anticipate di circa quattro anni, quindi al 1996 e al 2029. Tuttavia, queste date non sono “vendibili” nel mercato religioso, che include pellegrinaggi, gadget e manifestazioni, come già avvenuto con il Giubileo del 2000.
Luca Diotallevi, nel suo libro Fine corsa, parla dell’imprenditoria religiosa, un fenomeno in cui la religione — non la fede — entra nel mercato. Ma Gesù stesso scacciò i mercanti dal tempio, e dobbiamo vigilare per evitare una mercificazione eccessiva della fede. La vera fede non si lascia trascinare da simbolismi effimeri, ma interagisce con la cultura e la scienza. È un antidoto contro entusiasmi superficiali e trova la sua autenticità nella gratuità della grazia. Questo non esclude l’impegno ecumenico, ma non lo impone neppure.

In alcuni casi, l’ecumenismo rischia di restare un’operazione più formale che sostanziale, con tentativi di “appropriazione” di significati e simboli per rafforzare una narrativa unitaria che però fatica a tradursi in reale condivisione. Quali sono, secondo lei, le fragilità più evidenti di questo approccio?
Ogni appropriazione in questo campo è indebita. Il Credo apostolico professa la Chiesa come universale e cattolica, non nel senso esclusivo della chiesa di Roma, ma come realtà con una dimensione invisibile e una visibile, fatta di istituzioni umane, fallibili e provvisorie, come ricordava il teologo e pastore valdese Vittorio Subilia.
La Pasqua è la festività cristiana per eccellenza e appartiene a tutti i cristiani, indipendentemente dalla chiesa o denominazione. Eventi storici come il Concilio di Nicea e celebrazioni come la Pasqua devono essere stimoli per approfondire la comunione con il divino. Gesù è il punto di riferimento, l’unico mediatore tra Dio e l’umanità. Martin Buber, pur non cristiano, sottolineava che la fede nasce da una dimensione individuale prima di diventare esperienza comunitaria. La chiesa visibile è composta da istituzioni umane ispirate dalla Parola di Dio, ma nelle loro interpretazioni emergono divergenze, a volte anche profonde.

Nel dialogo tra chiese cristiane, la Pasqua ebraica rimane spesso in ombra, mentre persistono atteggiamenti di distacco o persino rimozione. In che modo le chiese cristiane possono superare questo silenzio e recuperare una consapevolezza più autentica delle radici della Pasqua?
Si è creato un intreccio pericoloso tra dimensione politica, sociale e questioni di fede. Per me, una data comune per tutte le chiese cristiane dovrebbe adeguarsi alla Pasqua ebraica. Sarebbe la soluzione ideale, ma so che non accadrà: in molte chiese ortodosse è ancora presente la teologia della sostituzione, secondo cui la Chiesa avrebbe rimpiazzato il popolo d’Israele.
Nelle chiese della Riforma questa teologia è stata superata, con una conferma solenne nel 2017, per i 500 anni della Riforma protestante. Tuttavia, in alcune frange conservatrici del cattolicesimo e in una parte del mondo ortodosso, permangono resistenze. Per loro, la Pasqua cristiana è un evento a sé stante, ma in realtà è il compimento della Pasqua ebraica, non una sua sostituzione. È necessario rifiutare ogni argomentazione che esalti la centralità della Pasqua cristiana senza riconoscerne le radici ebraiche. Inoltre, dobbiamo saper distinguere eventuali correnti anti-giudaiche o addirittura antisemite che rischiano di deformare il discorso. (Elena Ribet è redattrice dell'agenzia stampa nev-notizie evangeliche della Federazione delle chiese evangeliche in Italia)

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