Il regista e premio Oscar ungherese insignito dalla giuria ecumenica
(ve/kath.ch) Sono 50 anni che al Film Festival di Locarno esiste una Giuria ecumenica. Per l’occasione, il regista e premio Oscar ungherese István Szabó (85) è stato insignito di un Premio onorario alla carriera dalle associazioni protestante e cattolica, rispettivamente Interfilm e Signis, promotrici delle giurie ecumeniche a numerosi festival cinematografici. Il cineasta, dicendosi “felice e grato”, ha aggiunto: “Il bello dell’ecumenismo è la comunione, non la separazione”.
Nel 1964 il cineasta fu premiato al Festival di Locarno per il film “L’età delle illusioni”, e nel 1974, sempre a Locarno, vinse sia il Pardo d’oro, sia il Premio della giuria ecumenica per “Via dei pompieri N. 25” (Tüzolto utca 25.). Ora è tornato a Locarno anche per presentare il suo film più recente: “Final Report” (“Rapporto finale”, 2020), che ha come protagonista Klaus Maria Brandauer, il quale interpreta le veci di un medico di campagna, dottor Stephanus, costantemente impegnato a favore del bene nel mondo, anche se a volte ciò può sembrare una lotta contro i mulini a vento. “Final Report” è un’attenta analisi dello status quo della società ungherese. Sarah Sutte di kath.ch lo ha intervistato. Proponiamo alcuni stralci della loro conversazione.
István Szabó, cosa significa per lei il ritorno a Locarno?
Per me tornare a Locarno rappresenta la chiusura di un cerchio. La prima proiezione internazionale del mio lungometraggio di debutto “L’età delle illusioni” (1965) ha avuto luogo qui e qui ho anche ricevuto il mio primo premio. Dietro l’ecumenismo c’è per me l’idea importante della collaborazione concreta tra confessioni diverse. Sono felice e grato che già diverse giurie ecumeniche hanno assegnato riconoscimenti ai miei film.
Com’è stato per lei tornare a collaborare dopo trent’anni con l’attore austriaco Klaus Maria Brandauer nel suo ultimo film “Final Report”?
Klaus Maria Brandauer e io ci siamo detti più volte quanto sarebbe stato bello tornare a collaborare insieme. Siamo stati entrambi felici di esserci finalmente riusciti. È stato bello girare di nuovo insieme.
Lei viene da una famiglia di medici. Quanto sente vicino il ruolo del dottor Stephanus nel film “Final Report” (“Rapporto finale”, 2020)?
Molto vicino. Mio padre, mio nonno e il mio bisnonno erano tutti medici e anche io volevo diventare medico. Tuttavia mio padre morì prematuramente e io, da giovane adulto, lessi allora la teoria di estetica del cinema Der sichtbare Mensch (“L’uomo visibile”, non tradotto in italiano) di Béla Balázs. Da lì sono arrivato alla fotografia e al cinema.
Lei stesso è di origine ebraica. La religione, anche in riferimento ai rituali ebraici tradizionali, ha svolto un ruolo importante nella sua infanzia?
Nella nostra famiglia la religione non aveva alcun ruolo di rilievo.
Tuttavia, a un certo punto tra la prima e la seconda guerra mondiale la sua famiglia si è convertita al cattolicesimo…
È vero. I miei nonni erano ebrei, io però sono cattolico-romano dalla nascita. La scuola elementare che frequentai a Budapest era gestita da suore. Penso che non si possa scegliere la fede, ma soltanto la religione. O si è credenti o non lo si è. Dio è lo stesso, sia che se ne percepisca l’assenza, sia che se ne abbia bisogno per vivere, come si ha bisogno dell’amore.
Da bambino, all’epoca del nazismo, lei ha vissuto per qualche tempo in un orfanotrofio cristiano.
Era una casa per ragazzi gestita da una organizzazione evangelica e all’epoca avevo sei anni. Mi ricordo la porta d’ingresso della casa, dove l’educatrice è venuta a prendermi e dove ho dovuto salutare mia madre. Ho ancora davanti agli occhi il soldato russo che sei mesi dopo, con indosso una tuta da sci bianca, ha aperto la porta della cantina, ha osservato tutti quei bambini e poi è ritornato con tanti pezzi di pane. Mi ricordo il gusto di quel pane. E che mio padre venne da me con una fascia della Croce Rossa al braccio.
Aveva la sensazione di dover decidere per una fede o per l’altra?
No. Rituali e iconografie sono belli e rispettabili in tutte le religioni - aiutano noi esseri umani ad andare più a fondo in noi stessi e nell’incontro con gli altri.
In molti dei suoi film ci sono scene di preghiera. Quale ruolo ha per lei la preghiera?
Ci si confronta con sé stessi. Si cerca di affrontare la propria paura e di compensare la mancanza.
La mancanza di che cosa?
Di sicurezza, di qualcosa su cui possiamo contare.
Per questo motivo i personaggi dei suoi film cercano di avvicinarsi a Dio? Per trovare una risposta alle loro preoccupazioni e ai loro bisogni?
Sì, penso che cerchino Dio perché desiderano ritrovare la sensazione di sicurezza che hanno perduto.
Si può dire che per lei la religione è ricerca, ma anche dubbi e domande?
Sì. Mi interessano gli spazi vuoti che si trovano in ogni persona - anche in me stesso. Sono mosso più dalla fede che dalla religione. Il bello dell’ecumenismo è la comunione delle religioni, non la loro separazione. Ciò che mi interessa è quindi quello che abbiamo in comune. (con la collaborazione di G. M. Schmitt per la traduzione)
István Szabó è nato nel 1938 a Budapest, dove vive ancora oggi. Regista ungherese di film d’autore, nel 1981 ha vinto l’Oscar al miglior film straniero con “Mephisto”. Il ruolo del protagonista era interpretato da Klaus Maria Brandauer, che ha recitato anche in altri film di Szabó. È il caso anche di “Final Report” (“Rapporto finale”, 2020), proiettato quest’anno in prima europea alla 76. edizione del Film Festival di Locarno alla presenza del regista. Inoltre, giovedì 10 agosto ha partecipato ad una tavola rotonda pubblica intitolata: “István Szábo su cinema, cultura e spiritualità - 50 anni di giuria ecumenica a Locarno”, che è possibile rivedere in tedesco cliccando qui.