Pro o contro Frontex? La posizione delle chiese

Votazioni: il quesito del 15 maggio polarizza gli ambienti ecclesiastici

10 maggio 2022

(foto: Kevin Buckert/unsplash)

(gc/ve) Il prossimo 15 maggio l’elettorato elvetico è chiamato alle urne per decidere se accordare l’adesione della Svizzera al potenziamento di Frontex, l'Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. I contributi versati dalla Confederazione aumenteranno gradualmente: dai 24 milioni di franchi del 2021 si stima che il contributo elvetico aumenterà a 61 milioni di franchi entro il 2027, mentre in termini di personale si arriverà a 40 posti a tempo pieno. La Svizzera partecipa da oltre 10 anni finanziariamente e con personale qualificato alle operazioni Frontex, che si svolgono soprattutto ai confini dello spazio Schengen e dove, da anni, si verificano gravi violazioni dei diritti umani, in contrasto con le disposizioni del diritto internazionale e del mare.

Posizioni divergenti

In ambito ecclesiastico il quesito referendario sta polarizzando gli animi. Se la Chiesa evangelica riformata in Svizzera (CERiS) e l’ente di Aiuto delle chiese evangeliche in Svizzera (HEKS) hanno preferito non prendere una posizione netta in merito al quesito referendario, hanno tuttavia chiesto di riconsiderare le politiche di accoglienza in Svizzera e di accesso allo spazio Schengen per persone in fuga da guerre e persecuzioni. Nello specifico HEKS, in un appello al Consiglio federale e al Parlamento, ha rilanciato il suo cavallo di battaglia delle “vie di fuga sicure e legali” per i rifugiati. Sul fatto che la Confederazione debba urgentemente intensificare i propri sforzi per garantire una congrua protezione a chi la richiede, sia HEKS che la CERiS non nutrono alcun dubbio. In risposta a una domanda di ref.ch, il Consiglio della CERiS ammette che nelle operazioni di Frontex “ci sono deficit nella protezione dei diritti fondamentali" e che quindi va affrontato la natura del mandato dell'Agenzia. Tuttavia, l'acquis di Schengen e i regolamenti dell’Unione europea (UE) per la CERiS non possono essere messi in discussione. Idem per HEKS, il cui portavoce, Dieter Wüthrich, a ref.ch ha detto: "La Svizzera può esercitare un'influenza solo come membro di Schengen, non da sola, e una migliore protezione dei diritti umani può essere raggiunta solo con la cooperazione di tutti gli stati europei”. Tra gli argomenti per il sì figura infatti quello riferito al rischio di rimanere fuori dai trattati di Schengen.

foto: unsplash

Per un cambio di paradigma

Nel mondo delle chiese elvetiche non manca tuttavia chi si esprime apertamente per il “no”. È il caso dell'alleanza ecumenica "Chiese contro l'espansione di Frontex", intervenuta nella campagna referendaria con una lunga ed articolata presa di posizione del teologo riformato Pierre Bühler a favore del “no”. Con argomenti biblici e teologici si esprime contro l’ampliamento di Frontex (il testo integrale in italiano nella traduzione a cura di Voce Evangelica si può trovare qui). “Frontex ignora e viola sistematicamente i più basilari principi di diritto internazionale e umanitario", quando, per esempio, si rende complice di respingimenti sommari di profughi verso paesi che non possono garantire l’incolumità delle stesse persone, come la Libia, si legge nel documento, e ancora: “Non è normale che la protezione dei confini debba essere ottenuta attraverso la mancata protezione delle persone. (…) Il nostro denaro dovrebbe servire ad accogliere le persone in pericolo piuttosto che a respingerle. Un semplice calcolo rende chiaro qual è la posta in gioco: con 61 milioni di franchi come contributo annuale della Svizzera a Frontex si potrebbe finanziare per 14 anni una nave di salvataggio nel Mediterraneo!”.
La neo-alleanza ecumenica comprende ministri di culto protestanti e cattolici, cappellani, curatori d’anime e impiegati ecclesiastici, tra cui Christian Walti, pastore riformato a Berna, reduce da una visita nei campi profughi in Bosnia. Per Walti, il sistema di protezione messo in atto da Frontex è soprattutto sinonimo di disumanità nella politica migratoria. "Votando no, l'elettorato svizzero può inviare un segnale, e cioè che non tollera le condizioni disumane alle frontiere esterne dell'Unione europea", ha detto il pastore a ref.ch.
Per Bühler, serve un cambio di paradigma, e questa votazione offre al popolo svizzero la possibilità di andare verso una politica di accoglienza costruttiva, contro “una logica di chiusura, emarginazione e repressione, che non porta alcuna soluzione”.

foto: Priscilla Du Preez/unsplash

Il PEV teme l'esclusione della Svizzera

Il Partito evangelico svizzero (PEV) ha deciso di votare a favore. La consigliera nazionale Marianne Streiff sottolinea che la Svizzera si è impegnata a sviluppare ulteriormente l'acquis di Schengen. Questo include la partecipazione a Frontex. "Se ci ritiriamo ora, non saremo in grado di contribuire a una migliore protezione dei diritti umani", dice Streiff. Secondo la consigliera nazionale gli oppositori al progetto di legge confonderebbero Schengen con le politiche di asilo. "Sosteniamo certamente le richieste nel campo delle politiche di accoglienza, come per esempio l'aumento delle quote di rifugiati. Ma non c’entra nulla con questo quesito referendario", dice Streiff, che nel caso di una vittoria del “no” teme l'esclusione della Svizzera da Schengen.

Non è Schengen il problema

Uno scenario, quello prospettato da Streiff, che il pastore Walti ritiene improbabile. Infatti, nel documento a firma di Pierre Bühler, si legge: “I fautori della legge approvata dal Parlamento lo scorso autunno ritengono che un ‘no’ il 15 maggio porterebbe automaticamente all’esclusione della Svizzera dallo spazio Schengen. Questo argomento ingannevole mira in primo luogo a fomentare la paura e a distogliere l’attenzione dal vero problema. Tale rischio potrebbe sussistere soltanto se la Svizzera dovesse semplicemente respingere la direttiva UE. Tuttavia non è la prima né l’ultima volta che la Svizzera si prende del tempo per ridiscutere una direttiva UE, per riformularla e confermarla, superando così il termine stabilito di due anni. Il termine è peraltro già scaduto a novembre e la Svizzera non è stata ancora esclusa!”.

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