Gaza. “Nemmeno le chiese sono sicure”

Parla la direttrice dell’ospedale Al Ahli a gestione anglicana

18 aprile 2025

(foto: Dipartimento di servizi per i rifugiati palestinesi del Consiglio di chiese in Medioriente)

(ve/gc/wcc) Dopo più di un anno e mezzo di guerra e un assedio totale che va avanti dal 2 marzo scorso, il sistema di aiuti umanitari nella Striscia di Gaza è sull'orlo di un collasso totale. È in questo quadro che il 13 aprile scorso, Domenica delle Palme, l’esercito israeliano ha bombardato per la quinta volta dopo il 7 ottobre 2023 l’Al Ahli Arab Hospital di Gaza City, detto anche “battista”, seppure sia gestito dalla Diocesi anglicana di Gerusalemme. Si tratta di uno degli ultimi ospedali parzialmente funzionanti nel Nord della Striscia. Nonostante le devastazioni e la cronica carenza di medicinali e mezzi, esso continua ad operare con 110 tra medici, infermieri e volontari, mantenendo attive le sale operatorie, l’unità di terapia intensiva e i pochi posti letto rimasti.

Una nuova indagine sull'accesso umanitario condotta su 43 organizzazioni umanitarie internazionali e palestinesi che operano a Gaza ha rilevato che quasi tutte – il 95% – hanno dovuto sospendere o ridurre drasticamente i servizi dalla fine del cessate il fuoco unilateralmente interrotto da parte israeliana un mese fa, il 18 marzo, con bombardamenti diffusi e indiscriminati che rendono estremamente pericoloso spostarsi. A pagarne il prezzo più alto è la popolazione di Gaza, in particolare donne e bambini. E intanto Gaza detiene il disastroso record di luogo più mortale al mondo per il personale medico e paramedico, nonché per gli operatori umanitari, ma anche per i giornalisti.

Lo scorso 13 aprile, Domenica delle Palme, l’ospedale arabo Al Ahli ha ricevuto un avviso di evacuazione appena venti minuti prima del bombardamento israeliano che ha colpito il laboratorio, l’unità di emergenza, la farmacia e il reparto ambulatoriale, ha detto Suhaila Tarazi, direttrice dell’ospedale arabo Al Ahli a Gaza City in una intervista diffusa dal Consiglio ecumenico delle chiese (CEC).
“Abbiamo dovuto evacuare i pazienti, e purtroppo un bambino è morto: aveva bisogno di ossigeno, ma non potevamo non spostarlo. È stato un colpo durissimo per tutti noi”, spiega la direttrice Tarazi. “La nostra fede ci insegna che dopo una notte buia ci sarà sempre un altro domani splendente” prosegue, nella volontà di condividere un suo messaggio pasquale per la Settimana Santa. La struttura da lei diretta accoglie attualmente circa 20.000 pazienti al mese, distribuiti tra ciò che resta dell’edificio principale e diverse sedi improvvisate.
“A causa dell’escalation di violenza e dell’altissimo numero di feriti, siamo diventati l’ospedale principale per il trattamento dei traumi. Ma soffriamo per la mancanza di medicine, attrezzature e persino cibo. Le forniture umanitarie erano già scarse prima di questi ultimi attacchi – ha proseguito la direttrice, spiegando che la missione dell’ospedale continua –: Aiutiamo tutte le persone, senza distinzione di fede, genere o affiliazione politica. Vogliamo solo salvare vite”.

Suhaila Tarazi

Suhaila Tarazi, nata a Gaza in una famiglia greco-ortodossa, sottolinea che “non esiste un luogo sicuro nella Striscia, nemmeno per le chiese. È una situazione senza precedenti, anche per chi, come me, ha vissuto molti conflitti”.
Nonostante l’ospedale sia diventato “un luogo di tombe, e non più di giardini”, la direttrice rinnova l’impegno e chiede la fine della guerra: “Per il bene dei palestinesi, per il bene dei nostri fratelli e sorelle in Israele. In fondo, siamo tutti figli di Dio, che siamo ebrei, cristiani o musulmani. La cosa più importante per tutti noi è che possiamo vivere in pace e dignità. La nostra visione per Gaza è di mantenere una testimonianza viva della presenza cristiana, continuare a curare le ferite, ad asciugare ogni lacrima, a restituire il sorriso ai bambini. E intanto siamo pieni di speranza che, in Gesù, ci sia una via, o un miracolo, che possa mettere fine a questa sofferenza – ha concluso Tarazi –. Ci sarà un altro domani. E questo è ciò che la nostra fede cristiana ci insegna. Dobbiamo continuare la nostra missione di guarigione, la nostra missione di riconciliazione, la nostra missione di pace".
Il suo appello finale è rivolto a tutte le persone di buona volontà: “Pregate per la pace a Gaza e nel mondo. Pregate per chi ha perso i propri cari, da entrambe le parti. E pregate perché Dio ci dia il coraggio di portare avanti questa missione”.

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