Presidente del Congresso mondiale uiguro, Dolkun Isa denuncia il genocidio contro il suo popolo
“L’onda di Gesù”: questo il significato in lingua uigura di Dolkun (onda) Isa (Gesù). Abbiamo incontrato Dolkun Isa, esponente della minoranza musulmana turcofona dello Xingjiang, presidente del Congresso uiguro mondiale, in esilio da 26 anni, a margine del Film Festival per i diritti umani di Lugano. Commentando il significato del suo nome, ha tenuto a precisare che nel Corano Gesù è considerato un profeta, di cui lui porta con orgoglio il nome.
All’occhiello della giacca, Isa porta una spilla raffigurante la bandiera del "Movimento Indipendentista del Turkestan orientale", proibita in Cina: uno spicchio di luna e una stella su uno sfondo azzurro.
Lo Xinjiang - che gli uiguri chiamano Turkestan orientale e che nel 1949 fu annesso dalla Cina - è una regione ricca di risorse naturali. Si trova al crocevia di importanti snodi commerciali: non solo l’antica Via della Seta passava da là, ma anche quella nuova, voluta dal presidente cinese Xi Jinping, ossia la Belt and Road Initiative, un gigantesco progetto infrastrutturale e commerciale.
Sinizzazione forzata
Da diversi anni la Cina sta mettendo in campo una massiccia campagna contro le minoranze musulmane, a danno soprattutto della popolazione uigura: abbattimento di moschee, indottrinamento, lavoro forzato, famiglie separate, detenzioni arbitrarie, sterilizzazioni coatte, torture, sparizioni e uccisioni.
Mentre le autorità cinesi negano l’esistenza di campi di concentramento nello Xingjiang e rigettano l’accusa di detenzioni arbitrarie - anzi, parlano di “centri di educazione vocazionale” -, numerosi osservatori ritengono che siano in corso sistematiche violazioni dei diritti umani. In quei lager sarebbero internate da uno e tre milioni di persone.
Quella che viene perpetrata contro il suo popolo è una pulizia etnica?
Oggi il governo cinese sta perpetrando un genocidio contro gli uiguri. Non solo una pulizia etnica, ma un vero e proprio genocidio. Se guardiamo alla Convenzione delle Nazioni Unite del 1948 sul genocidio, vediamo che sono presenti tutti i criteri per essere definito tale. Il governo cinese colpisce la nostra lingua, la nostra religione, la nostra cultura.
Tantissimi sopravvissuti ai campi di concentramento hanno testimoniato le atrocità subite, numerosi esperti internazionali hanno pubblicato rapporti e fatto delle ricerche, importanti testate hanno ripetutamente trattato l’argomento. Non c’è nulla che possa giustificare il silenzio a livello internazionale.
Secondo lei, la comunità internazionale sta facendo abbastanza?
Purtroppo la comunità internazionale rimane perlopiù zitta. Recentemente abbiamo però registrato un certo interesse: 39 paesi (tra cui la Svizzera, ndr.) hanno chiesto al governo cinese di fermare le atrocità, di chiudere i campi di concentramento, di permettere un’inchiesta internazionale indipendente nel Turkestan orientale. Per noi questo è molto significativo. Purtroppo, molti paesi sostengono ancora la Cina. E tra questi ci sono le nazioni islamiche.
Lei ha delle riserve nei confronti di paesi a maggioranza musulmana...
Oggi il Partito comunista cinese prende di mira tutte le religioni. Soffrono i cristiani, i buddisti e i musulmani. Per quanto ci riguarda, Xi Jinping attacca apertamente i valori islamici, dicendo che si tratta di una patologia ideologica che va eradicata. La repressione nei nostri confronti è una cosa nota, a maggior ragione ci inquieta il silenzio dei paesi musulmani.
Copie del Corano sono state requisite e bruciate, è proibito fare il digiuno del Ramadan, non abbiamo più il diritto di dare nomi islamici ai nostri figli, le donne non possono portare il velo e gli uomini non possono farsi crescere la barba, non possiamo neanche più salutarci dicendo salaam aleikum. Tutto questo è risaputo. Perché allora i paesi islamici non alzano la voce?
E secondo lei, perché non lo fanno?
Le ragioni sono in prima linea economiche. E poi, la maggior parte di questi paesi violano a loro volta i diritti umani. Anzi, la Cina e questi paesi musulmani si proteggono a vicenda, sono partner commerciali. Invece, sul fronte della chiesa cattolica, da papa Francesco ci aspettiamo una presa di posizione che ancora non c’è stata. Va detto che alcuni singoli prelati cattolici, leader evangelici, anche qualche imam o maestro buddista, ed esponenti del mondo ebraico, hanno condannato ciò che succede nel Turkestan orientale. Pochi mesi fa, 76 leader religiosi - in maggioranza del Regno Unito - hanno sottoscritto una protesta indirizzata al governo cinese. È un passo importante.
Il Vaticano continua invece a stare zitto, così come l’Arabia Saudita, il Pakistan e l’Egitto. Al contrario, molte realtà ebraiche hanno mostrato una vera solidarietà con il popolo uiguro. Forse perché gli ebrei sono stati essi stessi vittima di un genocidio sotto il regime nazista, e sanno cosa significhi soffrire.
Come si sente a essere considerato un terrorista dal governo cinese?
Per il governo cinese, noi uiguri siamo diventati terroristi dopo gli attacchi alle torri gemelle dell’11 settembre 2001. Prima di quella data eravamo etichettati come separatisti, dopo siamo diventati terroristi, considerati tali anche da molte democrazie occidentali. Nel 2003 il governo cinese ha stabilito che 11 persone attive nelle organizzazioni uigure erano dei terroristi. Io sono uno di loro, sono il numero 3 della lista cinese, perché uso il mio diritto fondamentale alla libertà di espressione. Ma sa qual è la mia bomba? È la mia penna. E il mio fucile? È la mia parola.
La sua famiglia non corre pericoli?
Da quando mi sono lanciato nell’attivismo, la mia famiglia ha molto sofferto. Mia madre, di 78 anni, è stata messa in un campo di concentramento, e ci è morta nel 2018. Anche mio padre è morto, l’ho appreso dai giornali cinesi. Non sono riuscito ad avere informazioni dai miei fratelli. La Cina si sta vendicando sulla mia famiglia per il mio attivismo.
Per quanto mi riguarda, posso dire di sentirmi al sicuro, qui, ora, ma cosa sarà domani, non lo so. Tutto può accadere. Ma finché non avremo la libertà, la democrazia e i diritti umani, qualcuno deve pagare un prezzo. Forse io sono tra questi? Ma credo che un giorno il mio popolo sarà libero. Allora anch'io sarò felice.