Risparmiare sulla solidarietà mette a rischio pace, sicurezza e futuro
(ve/gc) Risparmiare risorse? Risparmiare tempo? Risparmiare energie? O risparmiare sui poveri, sui bisognosi, sugli ultimi? O forse sull’aiuto allo sviluppo dei paesi che dovrebbero essere, appunto, in “via di sviluppo”? Il risparmio può fare rima con la solidarietà? È possibile salvare capra e cavoli? Se lo chiede l’analista di politica estera e securitaria Peter Hug nell’articolo di apertura della rivista zurighese “Neue Wege” fondata nel 1906 dal teologo riformato Leonhard Ragaz, e che questo mese di giugno è tutta dedicata al tema del risparmio.
“Voce Evangelica” propone la traduzione integrale del lungo ed articolato testo a firma di Peter Hug, intitolato: “Risparmiare sulla solidarietà mette a rischio la pace, la sicurezza e il futuro”. Come ha sottolineato Matthias Hui, caporedattore della storica rivista dedicata a “religione, socialismo e critica”, “il testo offre molti spunti di discussione intorno a temi quali la guerra in Ucraina, la militarizzazione, il diritto internazionale e la solidarietà con le popolazioni colpite”. La tradizione della rivista è pacifista, ricorda Hui che cita i coniugi Leonhard e Clara Ragaz, ma “Neue Wege” è soprattutto un luogo di confronto, riflessione e dibattito. È con questo spirito che la redazione ha deciso di pubblicare l’articolo di Peter Hug che analizza criticamente le priorità della Confederazione in materia di politiche finanziarie e di pace.
Il “long read” che vi proponiamo - e che potremmo sintetizzare con “il dilemma morale della Svizzera” - si colloca, secondo il caporedattore di “Neue Wege”, nel solco della visione espressa più di 100 anni fa dallo stesso Ragaz nel suo bestseller La nuova Svizzera (1919): “una visione incentrata su giustizia, pace e integrità del Creato”.
(Peter Hug) L’aggressione russa non deve avere successo. Non possiamo esimerci dal sostenere l’Ucraina - dal punto di vista militare, economico, finanziario e umanitario. Se in futuro vivremo in pace e sicurezza dipende però anche dal successo dell’attuazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile dell’ONU. Eppure, spesso il risparmio prevale sulla solidarietà.
Quando nel 2014 la Russia annetteva la Crimea innescando la guerra nel Donbass, la reazione dell’Occidente fu piuttosto blanda. In Europa occidentale, in particolare, è rimasta intatta la massima per cui attraverso il commercio sarebbe arrivato anche il cambiamento (cioè: Wandel durch Handel). Inoltre, andava salvaguardato il multilateralismo, che - va detto - registrò un successo straordinario soltanto un anno dopo: infatti, nel 2015 le Nazioni Unite approvarono all’unanimità tre documenti unici per forza visionaria e importanza strategica: l’Agenda 2030 con i suoi 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile; l’Accordo di Parigi sul clima che intende limitare il riscaldamento globale e rendere sostenibili i flussi finanziari globali; e il Piano d’azione di Addis Abeba per la mobilitazione delle risorse per l’attuazione dell’Agenda 2030.
Riarmo accelerato dal 2016
Tutti e tre i documenti dicono in fondo la stessa cosa: chi si ostina a risparmiare oggi distrugge il mondo di domani. Chi auspica un futuro comune non può risparmiare, ma deve investire in modo massiccio nella lotta alla povertà, al degrado ambientale e alla violenza, assicurando una buona governance. L’ONU stima che per il fabbisogno globale di investimenti per il raggiungimento dei 17 obiettivi vadano stanziati tra i 5 e 7 mila miliardi annui. È all’incirca da tre a cinque volte la spesa militare globale.
Nel 2015 non era ancora intaccata la speranza nell’utilità della pace. Perché la sensazionale capacità operativa del sistema ONU 2015 era anche espressione di un periodo di rilassamento globale. Come mostra l’Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma (SIPRI), la spesa militare dal 2010 al 2015 è diminuita.
Poco tempo dopo tutto è cambiato. Senza dover aspettare l’aggressione all’Ucraina nel febbraio 2022, già nel 2015 l’escalation della guerra in Siria segnalava un’inversione di tendenza. A maggio 2015 lo Stato islamico (IS) aveva conquistato la città di Palmira, arrivando così a controllare il 50% del territorio siriano. L’Occidente è rimasto a guardare senza intervenire e Vladimir Putin ha riempito il vuoto. A settembre 2015 sono iniziati i bombardamenti russi a fianco del dittatore siriano Bashar al-Assad. Se da una parte ciò ha creato insicurezza, dall’altra non ha tuttavia prodotto un’azione politica significativa. Dal 2016 la spesa militare globale è tornata a crescere in modo sostenuto, al pari del commercio internazionale di armi e del numero di conflitti armati.
Numero dei conflitti armati
La dinamica del riarmo era però distribuita in modo estremamente diseguale. Nell’Africa subsahariana la spesa militare ha continuato a diminuire fortemente, così come in America Centrale, nei Caraibi, nel Sud-Est asiatico, ma anche, a causa del calo dei proventi del petrolio, in Iran, in Iraq, in Arabia Saudita e in altri Stati del Golfo. Anche nell’Africa del Nord e nell’America del Sud la spesa militare ha registrato una stagnazione, così come in Russia, a causa dei suoi problemi economici. La crescita massiccia della spesa militare ha interessato poche regioni, in primis gli USA, la Cina, il Giappone, l’Australia e l’Europa.
Nella regione del Pacifico sono state probabilmente le tensioni tra Cina e USA il motore principale del riarmo. Meno chiari sono i motivi in Europa. Soltanto l’Europa occidentale per i suoi eserciti ha speso nel 2021 quasi 50 miliardi di dollari, ossia il 21% in più rispetto al 2015. Perché? Da un lato, nell’Europa centrale e in quella orientale era cresciuto il timore della Russia. Dall’altro lato, come conseguenza dell’escalation del conflitto in Siria, nel 2015 e nel 2016 sono arrivati in Europa circa 1,3 milioni di profughi all’anno, più del doppio rispetto a prima. In molti Stati ciò ha scatenato un forte slittamento verso destra. La difesa nazionale ha allora preso il posto della solidarietà internazionale e degli investimenti lungimiranti per un futuro comune.
La difesa è stata anche esportata militarmente. Se ne è discusso poco pubblicamente, ma importanti contingenti di truppe europee sono stati di nuovo inviati nel Maghreb. E per quanto brutali fossero alcune pratiche nei paesi affacciati sul Mediterraneo, fin quando questi ultimi davano una mano a respingere i profughi, poco importavano i bei discorsi sulla democrazia, sui diritti umani e sullo sviluppo sociale.
Sulle spalle del Sud globale
La pandemia di coronavirus ha inoltre contribuito a far considerare i propri problemi più pressanti rispetto a quelli del Sud globale. Come mostra il rapporto ONU sul finanziamento dello sviluppo sostenibile pubblicato ad aprile 2023, è sempre più grande il divario tra i paesi che hanno accesso a finanziamenti per lo sviluppo e quelli che non ce l’hanno. Il ricco Nord non ha dovuto risparmiare. Ha potuto aumentare in modo massiccio sia la spesa militare, sia gli investimenti per la propria ripresa. Grazie alla politica finanziaria e monetaria espansiva finanziata dal debito, siamo presto tornati ai livelli di crescita precedente la pandemia.
Il Sud globale, invece, è rimasto indietro, e ha dovuto risparmiare. Perché sui mercati finanziari i paesi più poveri sono confrontati con tassi di interesse fino a otto volte più elevati rispetto ai paesi industrializzati - una trappola del debito. Un terzo dei 46 paesi meno sviluppati (PMS) è oggi a grave rischio di default. Oltre il 40% delle persone che vivono in condizioni di estrema povertà si trovano in nazioni con elevati problemi di indebitamento.
Anche per quanto concerne la crisi climatica i paesi industrializzati possono permettersi di pagare per l’adattamento e la resilienza, mentre molti paesi in via di sviluppo non possono fare altrettanto. Inoltre, la guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina ha inasprito e accelerato la crisi globale del costo della vita. Il solo aumento del prezzo dei generi alimentari colpisce direttamente centinaia di milioni di persone. Il numero di coloro che patiscono la fame ha recentemente registrato un aumento giornaliero di oltre 200.000 persone.
Dirottamento degli aiuti verso l’Ucraina
Tuttavia, i dati dell’OCSE pubblicati ad aprile 2023 mostrano che nel 2022 i paesi donatori hanno effettuato risparmi senza problemi, ma riducendo la spesa sulle voci sbagliate. L’Aiuto pubblico allo sviluppo (APS) è diminuito dell’8,1% rispetto all’anno precedente, senza contare le spese per l’Ucraina e i fondi (spesi a livello nazionale) per l’asilo.
Questo dato non è tuttavia da ricondurre al significativo aumento della spesa militare negli USA, in Cina e in Europa. Perché il denaro ci sarebbe. Basterebbe prosciugare i flussi finanziari illeciti e istituire un sistema fiscale equo per generare risorse sufficienti, come ha ribadito di recente l’Assemblea generale dell’ONU nella sua risoluzione 77/244. E non è possibile giustificare l’abbandono del Sud del mondo tirando in ballo gli aiuti militari all’Ucraina; nel 2022 i 54 stati membro del Gruppo di Ramstein hanno destinato all’Ucraina soltanto il 2,5% delle loro spese militari.
Quel che però è cambiato è il focus dell’attenzione politica. Quest’ultima si è concentrata negli USA e in Europa sulla guerra in Ucraina - come se le altre guerre e crisi in tutto il mondo non esistessero più. Ma in un mondo globalizzato la pace e la sicurezza sono diventate indivisibili. Il Sud globale rimarrà ancora più indietro se non potrà disporre di mezzi da investire in uno sviluppo sostenibile e nella riorganizzazione dei propri sistemi energetici e alimentari. Se vogliamo un futuro degno di essere vissuto, un futuro di pace e sicurezza, allora dobbiamo provvedere a entrambe le cose: un sostegno generoso ed efficace all’Ucraina e risorse sufficienti per attuare l’Agenda 2030 dell’ONU e l’Accordo di Parigi sul clima.
Il corrispondente dall’Africa della NZZ Fabian Urech ha perciò commentato in modo estremamente critico il “disinteresse dell’Occidente” per “l’incontro dei dimenticati” che ha avuto luogo a Doha all’inizio di marzo 2023. I capi di Stato e di governo delle 46 nazioni più povere (PMS) hanno rimarcato le conseguenze devastanti della pandemia, della crisi climatica e della guerra in Ucraina per la maggioranza degli 1,1 miliardi di persone che vivono nei loro paesi. Urech sottolinea a ragione che non si tratta soltanto di una questione umanitaria, ma anche di una questione profondamente politica se adesso i fondi, che finora sono andati ai paesi più poveri dell’Africa e dell’Asia, vengono destinati in misura crescente all’Ucraina e al sistema di asilo nazionale. Perché per i paesi più poveri esistono da tempo alternative alla partnership con l’Occidente: Cina e Russia aspettano soltanto un’eventuale ritirata dell’Occidente per approfittarne ed estendere la loro influenza. Negli ultimi dieci anni la Cina ha spiccato il volo quale maggior investitore nei paesi più poveri. I suoi investimenti nei 46 Stati PMS sono triplicati. Altrettanto chiaramente, in questo stesso lasso di tempo, è aumentata l’influenza politica di Pechino in loco. Anche la Russia si sta dando da fare per trovare nuovi alleati tra i più poveri. I soldati del gruppo Wagner sono ormai presenti in almeno cinque Stati PMS. La Russia è inoltre il principale esportatore di armi verso l’Africa.
Che adesso l’Occidente, Svizzera inclusa, decida di tagliare il sostegno ai più poveri è, come minimo, estremamente miope: “Gli aiuti non sono mai soltanto un atto di solidarietà, spesso sono anche nell’interesse dei donatori. In un mondo sempre più fuori controllo è forse ancora più vero”, ricorda Urech.
Anche la Svizzera risparmia a detrimento della propria corresponsabilità globale. Stando all’OCSE, nel 2022 la Svizzera ha ridotto il suo aiuto pubblico allo sviluppo dell’8% rispetto all’anno precedente, se si escludono dai calcoli statistici i contributi per l’asilo che vengono spesi sul territorio nazionale. Diversamente da altri Stati OCSE la Svizzera è effettivamente obbligata a risparmiare se aumenta la spesa in altri settori, come l’esercito. Il freno all’indebitamento costringe a risparmiare ogni franco speso in più in un determinato settore, sottraendolo ad un altro.
Raddoppio delle spese militari
Senza che l’opinione pubblica se ne sia praticamente resa conto, le spese militari della Svizzera sono in forte crescita già dal 2014. Il Dipartimento della difesa è riuscito a impacchettare l’inversione di tendenza nel Messaggio sul programma di consolidamento all’articolo 4, sotto la voce “mandati di risparmio”. Il presunto “mandato di risparmio” consisteva nel marcato aumento delle spese per l’esercito da 4,1 miliardi di franchi (2014) a 4,7 miliardi (2016). “Il tono di austerità dell’esercito e di coloro che ora si battono con veemenza per un esercito da cinque miliardi di franchi è ingannevole, se non arrogante. Malgrado la situazione estremamente confortevole della Svizzera in materia di sicurezza, da alcuni anni le spese per la difesa del paese non diminuiscono più, ma costituiscono al contrario il settore di spesa della Confederazione dalla crescita in assoluto più marcata”, si è opposta invano l’allora consigliera nazionale socialista e oggi consigliera di Stato Evi Allemann.
La procedura è sempre la stessa. Un gruppo molto chiassoso della destra nazionale riesce a formare maggioranze in Parlamento a favore di aumenti della spesa militare. Se poi il Consiglio federale dimostra che tali decisioni non sono attuabili in ottica di politica finanziaria, allora la maggioranza borghese si lamenta dei presunti “risparmi” in materia di spese militari, sebbene queste aumentino continuamente. A quel punto anche i media mainstream iniziano a scrivere di presunti "risparmi" nella spesa dell'esercito, sebbene questa sia in continua crescita.
L’ultimo di questi affondi è stato sferrato dalla maggioranza borghese a marzo 2022, immediatamente dopo l’ingresso delle truppe russe in Ucraina, con due mozioni di ugual tenore presentate al Consiglio nazionale e al Consiglio degli Stati. Queste mozioni chiedevano di aumentare la spesa militare all’1% del PIL entro il 2030. La consigliera federale Viola Amherd ha affermato che il finanziamento non sarebbe stato un problema. Molti parlamentari hanno fatto notare che si tratta di un aumento dai 5 ai 7 miliardi di franchi. Oggi sappiamo che nel 2030 l’1% del PIL vorrà dire un esercito da 9,4 miliardi, più del doppio rispetto al 2014.
Il 10 marzo 2023 il Consiglio federale ha detto chiaramente che l’1% potrà essere raggiunto al più presto nel 2035, al che da parte borghese è risuonata nuovamente la lamentela circa un “eccessivo risparmio sul fronte delle spese militari”. Sebbene queste ultime, con il 5,1% annuo, continuino a rappresentare la spesa federale in più rapida crescita, mentre l’1% del PIL nel 2035 significherà che avremo un esercito da 10,3 a 10,8 miliardi (a dipendenza della crescita economica).
Politica militare priva di strategia
Ciò è tanto più vergognoso se si considera che a novembre 2022 il Consiglio federale ha ribadito nel suo rapporto complementare sulla politica di sicurezza che la situazione militare della Svizzera è ancora buona e che a lungo termine non vi è alcun rischio di aggressioni. Eppure i piani di riarmo del DDPS si concentrano soprattutto sui grandi equipaggiamenti militari, come se già domani i russi potessero comparire sulle rive del lago di Costanza o a Chiasso con carri armati e artiglieria. È completamente assurdo. Se la Russia non riesce nemmeno a superare il Dnipro, a lungo termine è escluso che invada l’intera NATO e faccia la sua comparsa ai confini della Svizzera.
Vi sono rischi militari - come attacchi terroristici con mini-droni o aerei da turismo carichi di esplosivo che potrebbero per esempio prendere di mira la Ginevra internazionale - che però mettono in evidenza la mancanza di strategia dei piani di riarmo. Da questo punto di vista la Svizzera è del tutto indifesa. Ci sono lacune anche nella sicurezza pubblica interna: la Svizzera è l'unico Paese europeo che non ha predisposto contromisure per far fronte ad una eventuale destabilizzazione della popolazione da parte di campagne di disinformazione di massa, per lo più pilotate dall'estero.
Non piantiamo in asso l’Ucraina
Se la Svizzera intende dare effettivamente un contributo alla sicurezza europea non deve investire miliardi nella difesa militare nazionale e dei propri confini, bensì sostenere l’Ucraina e bloccare i flussi di denaro verso la Russia. Come mostra la crescente pressione degli Stati del G7, in politica estera la Svizzera non si può più permettere di mantenere la sua secolare tradizione di profittatrice di guerra e contribuire ben poco al sostegno dell’Ucraina. Le cifre sono imponenti: soltanto nell’anno di guerra 2022 la Svizzera ha acquistato dalla Russia materie prime per 88 miliardi di dollari statunitensi e ha finora bloccato soltanto 7,5 miliardi dei circa 200 miliardi di patrimoni russi depositati su conti bancari in Svizzera, senza inoltre aver messo in atto nessuna procedura di confisca.
Anche per quanto concerne il sostegno all’Ucraina, la Svizzera è fanalino di coda in Europa. Secondo l’Institute for the World Economy di Kiel e il suo Ukraine Support Tracker, la Svizzera ha fornito finora all’Ucraina un aiuto pari allo 0,03% del PIL, dieci volte di meno rispetto ai due altri fanalini di coda dell’UE, Cipro e Malta, con lo 0,3%. E da trenta a quaranta volte meno rispetto agli Stati baltici e alla Polonia, con contributi che vanno dallo 0,9% all’1,3%.
Ciò è tanto più vergognoso se si considera che, secondo la SECO, la Svizzera è il terzo investitore in ordine di grandezza in Ucraina. Quando si tratta di affari la Svizzera è quindi in prima linea. A un esame più attento, tuttavia, gran parte di questi investimenti hanno quale obiettivo l’elusione fiscale. Si tratta di beni riciclati dagli oligarchi ucraini. Utilizzano la deviazione attraverso la Svizzera per sottrarsi ai propri obblighi fiscali, come ha dimostrato l’economista ucraino Rostyslav Averchuk. Le dimensioni del fenomeno sono tali che, grazie a questa “prestazione di servizio” della Svizzera, sito di elusione fiscale, allo Stato ucraino verrebbero sottratte risorse molto più significative rispetto al magro ammontare degli aiuti umanitari svizzeri.
In confronto, il divieto di riesportazione di materiale bellico fornito in precedenza a Germania, Danimarca e Spagna e che questi paesi vorrebbero passare all’Ucraina, riguarda invece quantità microscopiche. Ciò mostra il dilemma morale di una Svizzera che in nome della propria neutralità non distingue tra aggressore e aggredito e ha inflitto importanti sanzioni non soltanto contro la Russia ma anche contro l’Ucraina. Personalmente sostengo quella maggioranza all’interno del PS che vuole revocare il divieto di riesportazione, nella misura in cui i due terzi dell’Assemblea generale dell’ONU hanno accertato una violazione del divieto di aggressione. Se la Svizzera non si pone dalla parte della Carta delle Nazioni Unite, sostiene di fatto l’aggressione russa.
Le priorità sbagliate della Svizzera
Quanto la Svizzera abbia sbagliato a stabilire le proprie priorità è dimostrato inoltre dalla pianificazione finanziaria del Consiglio federale presentata il 10 marzo 2023. Negli anni dal 2025 al 2028 spenderà per l’esercito 26 miliardi di franchi (più 5,1% all’anno) e per la cooperazione internazionale 10,6 miliardi di franchi (più 2,5%). Quest’ultimo importo include la cooperazione allo sviluppo e gli aiuti umanitari, compresi quelli all’Ucraina. Per l’ambiente e il clima il Consiglio federale prevede risorse per 2,2 miliardi di franchi (più 2,2%). Se sommiamo la spesa per la cooperazione internazionale e quella per la politica climatica e ambientale arriviamo a 12,8 miliardi, meno della metà delle risorse destinate all’esercito, e a un importo persino inferiore a quello destinato alla sola agricoltura (13,7 miliardi).
Nell’interesse della Svizzera - cioè del rafforzamento della sicurezza europea e globale attraverso il superamento e la prevenzione di rischi veri e non immaginari - questa distribuzione della spesa dovrebbe essere esattamente al contrario: la metà per l’esercito e almeno il doppio per la cooperazione internazionale e la politica ambientale e climatica. Il Consiglio federale ha invece esplicitamente escluso l’esercito da ogni obbligo di risparmio. Sotto il diktat del freno all’indebitamento viene aumentata la pressione al risparmio su tutte le altre voci di spesa della Confederazione: formazione, clima, ambiente, socialità, cooperazione allo sviluppo e così via.
Ciò che più mi spaventa è che la portata di questa errata definizione delle priorità non è oggetto di un’ampia copertura mediatica e tanto meno di un dibattito politico informato. (trad.: G. M. Schmitt; adat.: G. Courtens)
L’autore di questo articolo pubblicato su Neue Wege 6.23 è lo storico Peter Hug, fino al 2020 consulente specializzato del PS per la politica estera, di pace e di sicurezza.