Kirill diviso tra la fedeltà a Putin e le critiche nel suo campo
(ve/askanews) Non solo la ridefinizione degli equilibri geopolitici mondiali, non solo il riassetto delle politiche energetiche: la guerra di Putin sta già sconquassando un altro mosaico, quello della Chiesa ortodossa mondiale in una terra, l’Ucraina, dove politica e religione si intrecciano da sempre.
La Chiesa ortodossa, separata da Roma dal 1054, è distinta in diverse giurisdizioni - diciassette al giorno d’oggi - che godono ognuna dell’autonomia di governo (‘autocefalia’). Le tensioni all’interno dell’ortodossia, negli ultimi anni, si sono acuite, in particolare tra i due poli principali, il patriarca "ecumenico" di Costantinopoli, primus inter pares delle diverse chiese, e il patriarca di Mosca e di tutte le Russie, a capo della chiesa numericamente più grande. Se i battezzati ortodossi nel mondo sono oggi 260 milioni di persone, il 69%, secondo il Pew Research Center, attribuisce al patriarcato moscovita maggiore autorità religiosa che al patriarcato di Costantinopoli. Almeno sino ad oggi.
Il primo scossone a questo già fragile equilibro è arrivato nel 2016. A riprova del legame tra politica e religione, anzi tra cielo e terra, il concilio pan-ortodosso indetto dal patriarca di Costantinopoli Bartolomeo - il primo dopo mille anni - partì col piede sbagliato. Doveva tenersi al Fanar, quartiere di Istanbul, sede del patriarcato ecumenico, ma il 24 novembre 2015 un cacciabombardiere russo che volava nello spazio aereo turco fu abbattuto da Ankara. Il presidente Vladimir Putin proibì viaggi di russi in Turchia. Per evitare la defezione del patriarca russo, si decise di spostare la sede dell’incontro a Cipro, e si fissò la data al giugno 2016. Ma nell’imminenza dell’assemblea, quattro patriarcati - russo, bulgaro, georgiano e antiocheno - annunciarono che non avrebbero comunque partecipato. “Sullo sfondo di tale assenza”, scrisse all’epoca il giornalista Luigi Sandri, esperto di ortodossia, già corrispondente dell’ANSA Mosca, “stavano, in particolare, i nodi irrisolti tra i patriarcati di Mosca e di Costantinopoli su temi come quelli dell’autocefalia (chi la proclama?) e della giurisdizione sulle chiese ortodosse al di fuori dei loro confini canonici (quelli storici). L’assenza di quattro patriarcati a Creta ha ovviamente indebolito l’appello alla concordia ortodossa e alla pace nel mondo, lanciato dal Concilio”.
Il nodo ucraino, che già allora ribolliva sotto la superficie, esplose di lì a poco. L’Ucraina è la terra storica del battesimo ortodosso della Rus’ da parte di Vladimir il Grande, attorno al 980 dopo Cristo. Ancora oggi, una buona maggioranza del clero russo è ucraino, in Ucraina si trovano i monasteri della tradizione storica. Proprio mentre si apriva il Concilio di Creta, il parlamento ucraino lanciò un appello a Bartolomeo perché proclamasse l’autocefalia della Chiesa ortodossa ucraina.
Con il collasso dell’Unione sovietica, infatti, l’ortodossia ucraina si era spaccata in tre: una Chiesa ortodossa legata a Mosca, e altre due Chiese (Chiesa autocefala, guidata da Epifanyj, e patriarcato di Kiev, guidato allora da Filaret), sino a quel momento non riconosciute da altri patriarchi ortodossi, che però guardavano a Costantinopoli.
La richiesta di riconoscere la ‘autocefalia’ di una Chiesa ortodossa ucraina, in cui potessero convergere le due chiese non legate a Mosca, fu fortemente sostenuta da Kyiv, e in particolare dall’allora presidente Petro Poroshenko. E fu sempre osteggiata da Mosca - sia da Kirill che da Putin - che vi intravidero una manovra occidentale. Il 6 gennaio del 2019, alla fine, nella Cattedrale di San Giorgio a Istanbul, il patriarca Bartolomeo ha presentato il Tomos - il documento che concede l’autocefalia alla Chiesa ortodossa ucraina - al suo nuovo capo, il metropolita di Kyiv e di tutta l’Ucraina Epifanyj (Dumenko).
Fino all’avvio della guerra di Putin, quindi, l’intricata geografia del cristianesimo ucraino era il seguente: una Chiesa ortodossa legata a Costantinopoli e guidata dal metropolita Epifanyj; una Chiesa ortodossa - maggioritaria, soprattutto nell’est del paese - legata a Mosca e guidata dal metropolita Onufryj (Berezovskij); una Chiesa greco-cattolica ‘unita’ a Roma - i cui fedeli, numerosi in particolare nell’ovest del paese, sono perciò spregiativamente definiti ‘uniati’ - guidata dall’arcivescovo maggiore di Kyiv Sviatoslav Scevchuk; e una – piccola - Chiesa cattolica latina, l’unica di rito non bizantino, nonché diverse chiese protestanti, tra cui quella evangelica battista è la più diffusa.
Le bombe russe, ora, rischiano di devastare anche questo complesso mosaico, e in particolare la tenuta della Chiesa ortodossa legata a Kirill (al secolo Mikhail Gundyaev).
Se da più parti, nel mondo cattolico e protestante, sono state indirizzate a Kirill suppliche perché intercedesse presso Putin per fermare la guerra, il patriarca ha chiarito la sua posizione con un sermone di inizio Quaresima. Il patriarca si è schierato con il presidente, di fatto, affermando che oggi c’è sì una "vera guerra" nel Donbass, Ucraina orientale, dal significato "metafisico", ma essa è la resistenza di tanti fedeli ai "valori" occidentali "che oggi vengono offerti da chi rivendica il potere mondiale", e la cui cartina di tornasole è il "gay pride", che "giustifica" il "peccato".
Kirill, ha spiegato don Stefano Caprio, professore di cultura russa al Pontificio istituto orientale di Roma, “è in una posizione difficile”, perché pur essendo “personalmente contrario all’invasione dell’Ucraina’ è però ‘l’ispiratore’ di Putin, che ora non può sconfessare. È Kirill che ha suggerito a Putin una concezione della Russia come paese chiamato a difendere la vera fede, l’ortodossia, nel mondo secolarizzato, il richiamo alla terra comune russa, al battesimo comune con gli ucraini e con tutto il mondo russo che sta al di fuori dei confini russi, in particolare quella che era l’Unione sovietica”.
La posizione di Kirill avviene nonostante egli sia ormai apertamente contestato anche all’interno della Chiesa ortodossa. “Nel mondo ortodosso”, spiega don Caprio, “la Chiesa russa ha il 60/70 per cento dei fedeli, se perdesse l’Ucraina diventerebbe molto meno della metà di quel che è adesso, e con ciò perderebbe anche il primato universale nell’ortodossia”. La prospettiva, insomma, è che Kirill rimanga sì patriarca di Mosca, ma non più di “tutte le Russie”.
Ciò che è più notevole, è che la fronda non viene solo - cosa scontata - dal metropolita Epifanyj e dal patriarca Bartolomeo, il quale ha fin da subito condannato senza mezzi termini l’intervento militare in Ucraina: “Il Dio dell’amore e della pace, illumini la leadership della Federazione russa affinché comprenda le tragiche conseguenze delle sue decisioni e azioni che possono innescare anche una guerra mondiale”. Le contestazioni montano all’interno della Chiesa ortodossa legata al patriarcato di Mosca. L’elenco è ormai lungo.
I fedeli e i chierici condividono con i loro concittadini ucraini la stessa angoscia per la guerra. Un sondaggio del centro ‘Razumkov’, tradotto in Italia da Asianews, ha mostrato che il 65,2% degli fedeli ucraini legati a Mosca era fin da subito contrario all’invasione decisa da Putin. Il patriarcato di Mosca ha denunciato, secondo Interfax Religion, un aumento di “chiese sequestrate da nazionalisti (ucraini, ndr.), saccheggi, bullismo nei confronti di sacerdoti”. Alle funzioni religiose, in molte chiese ortodosse ucraine di rito moscovita non si commemora più il nome del patriarca Kirill. Lo ha deciso, ad esempio, il metropolita Evlogy di Sumy e Akhtyrka (nord-est del paese), che il patriarca Kirill ha accusato di “scisma” per aver preso questo provvedimento “non per errori dottrinali o canonici, o per idee false, ma per la non corrispondenza con l’una o l’altra visione e preferenza politica”. Negli stessi giorni il patriarca russo ha scritto una lettera al Patriarca Teodoro di Alessandria e di tutta l’Africa, intimandogli di recedere dall’intenzione di riconoscere la Chiesa ucraina autocefala e misconoscere quella legata a Mosca.
Il Santo sinodo della Chiesa ortodossa ucraina, ancora, ha chiesto a Kirill - dunque al proprio patriarca - di adoperarsi per la “cessazione dello spargimento di sangue fratricida” in Ucraina e di invitare la leadership della Federazione russa a “cessare immediatamente le ostilità, che già stanno minacciando di trasformarsi in una guerra mondiale”. Il metropolita, Onufryi, ha paragonato la guerra al “peccato di Caino”, che uccise il fratello Abele, ed ha fatto appello direttamente a Putin: “Vladimir Vladimirovich, fai di tutto per porre fine alla guerra sul suolo ucraino!”.
Non è forse casuale che oggi Kirill abbia di nuovo preso la parola per stigmatizzare quelli che a suo avviso sono tentativi esterni di dividere i fratelli nella fede: “Che brutto e cattivo è usare i fratelli per raggiungere scopi geopolitici, com’è terribile mettere i fratelli l’uno contro l’altro, com’è terribile armarli in modo che si combattano tra fratelli che hanno lo stesso sangue e la stessa fede”.
Già prima della domenica di avvio di Quaresima, un gruppo di oltre 250 presbiteri e diaconi della Chiesa ortodossa russa hanno pubblicato un appello “a tutti coloro da cui dipende la cessazione della guerra fratricida in Ucraina, con un appello alla riconciliazione e a un cessate il fuoco immediato”. Dopo il sermone di Kirill, il metropolita Giovanni di Dubna, a capo dell’arcidiocesi in Europa occidentale legata sempre al patriarcato moscovita, ha scritto una lettera aperta al suo patriarca: “Con tutto il rispetto che Le è dovuto, e dal quale non mi allontano, ma anche con infinito dolore, devo portare alla Sua attenzione che non posso sottoscrivere una tale lettura del Vangelo. Nulla potrà mai giustificare che i ‘buoni pastori’ da noi debbano cessare di essere ‘artigiani di pace’ e che qualunque siano le circostanze”.
Un coro di proteste, insomma, che ha però eccezioni non casuali. Innanzitutto rimane fedele a Kirill il metropolita di Donetsk e Mariupol, nel Donbass, la regione orientale dell’Ucraina al centro della contesa tra Mosca e Kyiv. Il direttore del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca Ilarion, nonché braccio destro del patriarca Kirill, in un appello di fine febbraio ha chiesto di salvare il Donbass “unito, laborioso e ortodosso”. La responsabilità - è la tesi che traspare dalla sua invocazione - è di chi non ha rispettato la sensibilità di questa regione russofona: “Quante volte in questi anni abbiamo dovuto subire questa assurda guerra crudele? Sono ancora aperte le ferite sanguinanti degli scontri bellici, ancora non sono state ricostruite le case della nostra povera gente, e neppure i santuari profanati della nostra diocesi”.
Fuori dalla Russia - lo ricorda Jonathan L. Zecher su The Conversation - se Georgia e Finlandia, patriarcati di paesi che hanno subito nella storia l’aggressione russa, hanno condannato con nettezza la guerra ucraina, il patriarcato siro-ortodosso di Antiochia (a Damasco, Siria) si è limitato a fare appello alla pace e all’unità, mentre i patriarcati di Serbia e Bulgaria sono rimasti fedeli alla linea di Mosca.
È facile prevedere che la guerra lascerà molte macerie nell’ortodossia, alcune amicizie si saranno trasformate in inimicizie, la diffidenza già presente tra diverse Chiese autocefale sarà più radicata. In Ucraina, in particolare, gli osservatori più attenti già intravedono uno scisma interno. L’eparchia di Lviv, guidata dal metropolita Filaret, ha già pubblicato sui social network un appello al Concilio per scindersi da Mosca. Sarebbe sbagliato però ritenere scontato l’esito: gli ortodossi ucraini che si allontanano da Mosca, infatti, non intendono unirsi a Costantinopoli, ma, semmai, creare una ulteriore Chiesa autocefala. Né con Kirill né con Bartolomeo. Ulteriore frammentazione di un quadro già frammentato. (Da: askanews; adat. G. Courtens)