Babbo Natale ha messo i bastoni fra le ruote a Dio

Lo scrittore Éric-Emmanuel Schmitt scrive una lettera a Gesù

06 gennaio 2022  |  Anne-Sylvie Sprenger

Éric-Emmanuel Schmitt (foto: Wikipedia)

Smarrito in mezzo al deserto del Sahara, in una gelida notte del 1989, Éric-Emmanuel Schmitt ha trovato la fede. Da quell’estasi fulminea, suscitata da un’improvvisa presenza senza volto percepita nel cuore dell’angoscia, i suoi libri di successo non cessano di girare attorno a quel mistero. La sua straordinaria saga “La traversata dei tempi” - che ambisce a ripercorrere la storia dell’umanità in più volumi di cui è appena uscito il secondo, “La porta del cielo” -, non deroga peraltro alla regola.
È così che, sorretto dalla sua speranza cristiana, nel mese di dicembre Éric-Emmanuel Schmitt ha voluto contrastare la sempiterna tradizione della lettera a Babbo Natale creando un laboratorio per scrivere "una lettera a Gesù". Un atto di fede e di resistenza.

Mentre i bambini scrivevano la loro lettera a Babbo Natale, il suo laboratorio di scrittura invitava a scrivere invece “Una lettera a Gesù”. Vuol dire che per lei Gesù è il Babbo Natale degli adulti?

No, assolutamente no! Non bisogna confondere il soprannaturale e lo spirituale. È peraltro il problema della nostra epoca: lo spirituale perde colpi ogni volta che si promuove il soprannaturale. Personalmente sono uno strenuo oppositore di Babbo Natale. Non ho mai capito come gli adulti possano sprofondare consapevolmente nelle menzogne, perdendo in questo modo parte della credibilità e della fiducia loro accordate, cercando di far credere ai bambini cose che inevitabilmente scopriranno essere false e stupide.

Anche a lei, da bambino, hanno voluto far credere in Babbo Natale?

Ah sì, ma non ci ho mai creduto davvero! E guardavo i miei genitori con pietà e commiserazione. “Ma come possono essere tanto stupidi da pensare che io ci creda?” mi domandavo. Non ho peraltro mai scritto a Babbo Natale. E direi anche che nella mia infanzia Babbo Natale ha messo i bastoni tra le ruote a Dio.

Cioè?

Essendo cresciuto in una famiglia atea in cui si cercava di farmi credere in Babbo Natale sono diventato diffidente e mi sono chiuso a tutti questi racconti. E quando dopo sono arrivate dall’esterno dichiarazioni concernenti Dio o Gesù le ho messe nello stesso paniere. In fondo la menzogna aveva fatto sparire il mistero.

Come le è venuta l’idea di un laboratorio di scrittura su questo tema?

Con Catherine Lalanne, caporedattrice della rivista “Le Pèlerin”, ci siamo detti che era un buon tema, tanto in termini spirituali quanto letterari. I credenti sono abituati a rivolgersi a Dio, ma sotto forma di preghiera. La nostra proposta era di rinnovare queste parole rivolte a Gesù uscendo appunto dal contesto della preghiera.

“Scrivere una lettera a Gesù” non equivale a mettere per iscritto una preghiera?

Lo scopo è di uscire dalla retorica della preghiera, in cui le espressioni continuamente ripetute finiscono sempre per svuotarsi di senso. Bisogna rivitalizzare il pensiero con espressioni nuove. E il modello della lettera, con tutte le sue caratteristiche formali, impegna in tal senso. Come ci si rivolge a Gesù? Gli si dà del tu o del lei? E chi scrive? L’idea è di sfruttare l’esercizio letterario e le sue carte per reinvestire le proprie parole - e forse dire qualcosa che non si era mai detto.

Appunto, sappiamo ancora pregare oggi?

Non ho mai capito se sapevo pregare. Le mie preghiere, che sono a volte indotte da una richiesta, finiscono sempre con l’accettazione e il ringraziamento.

Come si sono svolti i suoi laboratori online?

All’inizio ho presentato una masterclass per spiegare l’interesse di giocare con tutti i segni formali della lettera: l’indirizzo, la denominazione, il post scriptum, l’allegato, l’intestazione della lettera se si adotta una formula amministrativa, come una domanda d’impiego o una lettera di reclamo. Gli scriventi hanno fatto proprio tutto questo e ciò ha prodotto cose a volte molto divertenti, che dimostrano che humor e profondità possono convivere - cosa di cui peraltro non ho mai dubitato.

Nel proporre questo laboratorio proprio prima di Natale c’era anche l’idea di rimettere Gesù al centro della festa?

Assolutamente sì, poiché oltre il fatto che con Babbo Natale si celebra più una festa del soprannaturale che della spiritualità, è anche diventata una festa commerciale totalmente pagana. Quindi questo laboratorio era il mio modo di fare resistenza.

Qual è il senso del Natale per lei oggi? Che cosa festeggia interiormente in quel giorno?

Per me Natale è la celebrazione di una nascita, quindi del nuovo anno tanto quanto di una nuova era. In mezzo all’inverno freddo e oscuro Natale mi ricorda dove sta la vera luce, il calore profondo: nel cuore che ama. Per me l’immagine del bambino raggomitolato sulla paglia simboleggia il cristianesimo più di quella della crocifissione. Ci sono un raccoglimento, una meraviglia, una gioia che mi ricentrano e mi danno vigore. Nella mangiatoia la vita ha inizio; sulla croce essa finisce. Natale celebra l’esistenza radiosa, mentre Pasqua ce ne fa comprendere la tragicità. E la mia fede è prima di tutto gioia, buona notizia… Quindi, se Pasqua mi sconvolge, Natale mi incanta, mi ricentra, mi rinfresca.

Che cos’è cambiato nella sua vita da quando è diventato credente?

Non so nulla di più, ma vivo l’ignoranza in modo diverso. Voglio dire che vivo il mistero con fiducia, mentre prima lo vivevo con angoscia. Sono anche diventato molto più umile. Quando non capisco qualcosa faccio credito al mondo. Mi dico: “Il senso mi sfugge”. No mi dico più: “È assurdo”. Accetto di vedere in questa mancanza di comprensione i miei propri limiti e non accuso più l’universo delle sue presunte carenze.

E oggi che cosa chiede nelle sue preghiere?

È molto intima come domanda… Direi che non inizio una preghiera di richiesta se non è per qualcun altro. In particolare quando so che una persona cara sta affrontando una prova. Quindi prego perché sia all’altezza di quella prova e la viva dignitosamente, senza soffrire troppo. Questa prova può essere anche la morte. Quindi le mie preghiere, quando sono abitate da una richiesta, sono sempre preghiere per gli altri. Ed è la richiesta che le cose vadano bene per loro, che trovino la pace interiore, la luce, per vivere gli eventi che stanno affrontando.

Vuol dire che trova più difficile pregare per lei stesso?

Per me personalmente, per quanto mi ricordo, non ho chiesto mai niente. Invece elevo continuamente preghiere di riconoscenza. Il Laudate o l’Exultate è alla base del mio rapporto con Dio. È il canto di lode, l’azione di grazie, la preghiera di ringraziamento e la gioia. La mia fede non è consolazione, è gioia.

Sembra che sempre meno persone abbiano accesso a questa gioia...

La scomparsa della gioia non è legata soltanto alla scristianizzazione. La scomparsa della gioia è legata all’avvento di un individualismo esasperato, che concepisce l’essere umano come un essere di appetenze, appetiti e desideri - e quindi necessariamente di frustrazioni. Siamo quindi diventati una società della frustrazione, poiché abbiamo ridotto gli esseri umani a meri consumatori, esseri di desiderio di cui si intercetta il desiderio. È un movimento globale che crea frustrazione e infelicità.

Come uscirne?

Lo si può fare individualmente, ripensandosi e facendo un lavoro di saggezza - non necessariamente di fede, ma di saggezza - che consiste nel domandarsi: chi sono? Che cosa mi aspetto dall’esistenza? E soprattutto: che cosa non mi aspetto di ciò con cui hanno voluto abbindolarmi? Trovare l’accesso a sé stessi e a ciò che ci rende individui unici. (da ProtestInfo; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)

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