L’invidia è caratterizzata da un odio verso l’altro che può consumare
L’invidia può essere definita come “il dispiacere e l’odio che si provano per la felicità, i successi o le fortune altrui” (dizionario Le Littré). L’invidioso, così come lo rappresentano i poeti latini e in particolare Ovidio, ha un aspetto sofferente, il viso minaccioso, l’espressione accigliata, il colorito pallido, le mani pronte a colpire, le sopracciglia aggrottate. Paradossalmente, l’odio è spesso una forma di invidia e l’invidia suscita sovente una forma di odio. In effetti, chi odia l’ebreo e il suo successo - che egli giudica, senza vergogna - desidera nondimeno, segretamente, essere come lui. Allo stesso modo, il quadro d’impresa che odia gli intellettuali subisce al tempo stesso una forma di fascino nei loro confronti.
— Alain Houziaux
L’odio che rode l’invidioso è certamente, prima di tutto, odio per colui che egli invidia. Ma questo odio è al tempo stesso un odio che l’invidioso prova nei propri stessi confronti. L’invidioso detesta se stesso per il fatto di invidiare l’altro che egli odia; egli si detesta, cioè, per il fatto di desiderare di essere come lui. È la ragione per cui egli rimuove e censura il proprio desiderio di essere come colui che egli invidia. Occorre sottolineare l’importanza che nell’invidioso ha questo odio del proprio stesso desiderio.
Altra osservazione: anche se esse appaiono molto simili ai nostri occhi, è necessario distinguere l’invidia e la gelosia. La gelosia, nel suo senso originario (il termine ha assunto oggi una dimensione molto più generale), ha origine da un desiderio di esclusività e da una forma di possessività su un bene che si considera proprio. Il geloso dice: “La mia donna è mia e soltanto mia”, e se lei si interessa a qualcun altro, lui è geloso; è pronto a battersi con il suo rivale, o magari fa una scenata alla sua donna.
A differenza della gelosia, l’invidia si accende in relazione a un bene di cui è l’altro a godere, o nei confronti dell’altro che gode di questo bene. Lungi dal condurre, come fa la gelosia, a qualche forma di indignazione o di rivendicazione, l’invidia porta piuttosto a un sentimento di malinconia. Questa è la ragione per cui l’invidia, a differenza della gelosia, non deriva dalla pulsione di vita, ma dalla pulsione di morte. L’invidia è simile al “risentimento”, che nasce dal sentirsi umiliati e impotenti a reagire a questa umiliazione. Il risentimento, dice Friedrich Nietzsche, è una malattia propria dei deboli e degli impotenti. Gli invidiosi ruminano senza fine il loro desiderio di umiliare quelli di cui si sentono invidiosi, per esempio facendo loro sospirare ciò che desiderano. Così Saul, che invidia il giovane Davide e si sente umiliato dai suoi successi, pone condizioni esigentissime quando Davide gli chiede la mano di sua figlia.
— Alain Houziaux
Aggiungiamo una cosa: si può essere invidiosi “di natura”, senza essere invidiosi di uno specifico bene posseduto da un altro. Si può infatti essere invidiosi per temperamento, senza una ragione precisa. Questo vuol dire che si è sempre insoddisfatti di sé e della propria vita. L’invidia deriva allora non da una rivalità nei confronti di un altro, ma da una forma di frustrazione infinita e quasi innata che si ha, in permanenza, nel profondo di se stessi. In effetti, secondo la psicanalista Melanie Klein, noi siamo tutti, fin dalla nostra nascita, animati da una pulsione di morte che ci rende invidiosi, aggressivi e sempre frustrati. Dal momento che essa si manifesta fin dalla nascita, questa pulsione che è all’origine del temperamento invidioso potrebbe essere considerata come un analogo psicanalitico di ciò che la teologia indica come peccato originale.
Il figlio primogenito della parabola del figliol prodigo (Luca 15) è un esempio eccellente di questa forma di invidia quasi innata. Il figlio primogenito ha avuto per anni una vita relativamente mediocre, sempre all’ombra di suo padre, senza mai brillare realmente di luce propria; ha “trattenuto in sé” e “soffocato” tutti i propri desideri; non ha mai osato domandare a suo padre un capretto per far festa con i suoi amici. Quando suo fratello ritorna, il figlio maggiore si mostra geloso. Questa gelosia, però, non è che un effetto secondario dell’invidia che è in lui; il primogenito, in realtà, è invidioso di una vita che non ha mai potuto avere. In realtà il figlio maggiore fa i conti prima di tutto con se stesso.
— Alain Houziaux
Certo, egli è invidioso della vita che ha condotto suo fratello, o piuttosto dell’idea che lui si è fatto di questa vita; ma l’invidia si manifesta prima di tutto in rapporto all’immagine di ciò che egli avrebbe voluto essere e che non è stato. L’immagine che egli si è costruito di suo fratello non è che il modo in cui egli esprime l’esistenza che avrebbe sognato per se stesso; e ciò non gli impedisce di svalutare l’immagine di questa stessa vita (suo fratello - questo è il suo giudizio - ha trascorso il proprio tempo in compagnia di prostitute). Il figlio maggiore prova bramosia per l’ideale di vita che vede in suo fratello, ma al tempo stesso detesta il proprio desiderio di quella vita. Egli detesta il proprio stesso desiderio di essere come suo fratello.
In realtà, l’aggressività del figlio maggiore si manifesta in primo luogo e soprattutto contro suo padre: è il padre - pensa il figlio maggiore - ad essere responsabile della sua infelicità e della sua infinita frustrazione. E non è sorprendente che questa frustrazione si esprima su una questione che riguarda il cibo (il capretto, il vitello grasso).
L’invidia, dunque, è più una frustrazione e un’aggressività distruttrice che una bramosia. Allo stesso modo del lattante, il figlio maggiore è risentito con suo padre poiché ritiene di non essere stato sufficientemente nutrito da lui. Come un bambino, egli reclama il cibo da suo padre e contemporaneamente respinge il pasto che suo padre è pronto a dargli. Egli rifiuta peraltro di entrare nella casa per partecipare al pranzo; se vi entrasse, sputerebbe senza dubbio sul vitello grasso per manifestare la sua aggressività, la sua frustrazione e il suo risentimento.
Può esserci un rimedio all’invidia? Noi non conosciamo la fine della parabola del figliol prodigo, ma mi piace immaginare che il figlio maggiore sia riuscito a trovare la forza di lasciare la casa paterna per lanciarsi, anche lui, nell’avventura della vita e del desiderio. Sì, io immagino che abbia potuto lasciare la condizione mortifera di una relazione mancata con suo padre per partire, qualche anno dopo il suo fratello minore, sulle strade della libertà e del desiderio. La pulsione di vita può rinascere dalle ceneri della pulsione di morte? La frustrazione sterile si può riconvertire in desiderio, in appello e in anelito? (da Réforme; trad. it. Ezio Gamba; adat. P. Tognina) - La prossima puntata tra una settimana.
Melanie Klein, Invidia e gratitudine, Giunti 2012