Ela Gandhi racconta come il nonno maturò l’idea della nonviolenza, che poi ispirò Nelson Mandela
"Ho imparato molto da mio nonno", afferma Ele Gandhi, nipote del Mahatma, propugnatore della resistenza nonviolenta. "Molte delle sue idee hanno determinato il mio percorso di vita", aggiunge, ricordando di quando si sedeva sulle ginocchia del nonno.
"Gran parte della mia infanzia la trascorsi nella comunità indiana da lui fondata, l’ashram di Phoenix, nei pressi di Durban", prosegue. "Fu lì che nacquero le sue idee rivoluzionarie. Nelson Mandela disse una volta: 'Gandhi giunse in Sudafrica come Mohandas. Lo restituimmo all’India come Mahatma, la grande anima'".
Ele Gandhi, come avvenne la svolta evocata da Mandela?
Mio nonno giunse in Sudafrica da avvocato elegantemente vestito formatosi in Gran Bretagna. Era spesso collerico con la moglie Kasturba. Lei lo aiutò a tenere sotto controllo i suoi scatti d’ira. Fu effettivamente lei a insegnargli il metodo della nonviolenza.
È celebre la scena in cui un controllore bianco lo butta fuori da un vagone di prima classe a causa del colore della sua pelle...
La vicenda del treno fu decisiva per lui. In quell’occasione visse in prima persona che cosa significasse essere discriminati a causa del colore della propria pelle. Quell’esperienza gli aprì gli occhi e fu determinante per il suo successivo impegno contro ogni forma di discriminazione razziale.
Però chiamava i neri "cafri", un termine razzista...
Nemmeno Gandhi nacque eroe. All’inizio della sua permanenza in Sudafrica non era ancora convinto dell’uguaglianza di tutte le persone. Gli storici hanno svolto indagini al riguardo per conto dell’African National Congress (ANC). La loro conclusione: Gandhi respinse in seguito l’idea che gli indiani fossero persone migliori dei neri.
Il combattente antiapartheid Nelson Mandela si richiamò spesso a suo nonno. Tuttavia incitò alla lotta armata...
All’inizio l’ANC era strettamente nonviolento. Le cose cambiarono con i massacri della popolazione di colore negli anni Sessanta. La personalità di Mandela incarna tuttavia gran parte dell’atteggiamento che mio nonno insegnò con il metodo satyagraha.
Satyagraha - che cosa significa questo termine?
Con questa forma specifica di resistenza non si vuole distruggere il proprio avversario. Attaccarlo significa causare sofferenza anche a sé stessi. Si accetta perciò di essere gettati in prigione dopo una campagna.
E questo Mandela lo ha vissuto?
Penso semplicemente al rispetto con cui parlava ai secondini dell’isola carceraria di Robben Island. Ciò denota qualcosa di molto importante: la nonviolenza ha molto a che fare con la comunicazione. È impressionante anche che Mandela abbia invitato a pranzo il procuratore in pensione Percy Yutar, che ne aveva chiesto la condanna a morte.
Lei ha conosciuto Mandela personalmente?
Tra il 1994 e il 2004 sono stata deputata dell’ANC al Parlamento sudafricano, perciò era inevitabile che mi capitasse spesso di incontrarlo. Ma l’incontro più toccante con lui lo ebbi nel 1990, un giorno prima che Mandela venisse scarcerato. Ero andata a trovarlo con altri membri dell’ANC. Considero un dono speciale della mia vita aver potuto partecipare a due grandi liberazioni: l’abolizione dell’apartheid in Sudafrica e, da bambina, il raggiungimento dell’indipendenza in India.
Ricorda ancora il giorno dell’indipendenza in India?
Per me fu un giorno di commozione. Da bambina di sette anni nell’ashram mi fu concesso di issare la bandiera. Quel giorno mio nonno era infelice. Fu allora che venne sigillata la divisione del subcontinente indiano. Il Pakistan musulmano si separò dall’India a maggioranza indù.
La bandiera dell’India venne ideata da suo nonno con un’impostazione interreligiosa. L’arancione rappresenta l’induismo, il verde l’islamismo e il bianco le minoranze religiose...
Anche il dialogo tra le religioni è frutto delle sue esperienze in Sudafrica. Già nell’ashram di Phoenix leggevamo le scritture di tutte le religioni mondiali e si iniziava la giornata insieme con una preghiera interreligiosa.
Questo funziona nell’ashram. Perché nella popolosa India non è stato possibile giungere a un tale consenso?
Se passiamo in rassegna gli ultimi 70 anni fino al conflitto del Kashmir attualmente riesploso notiamo come la spirale di violenza non abbia mai smesso di girare. Il conflitto tra il Pakistan e l’India è costato migliaia di vite umane. Miliardi di dollari sono stati sprecati per l’acquisto di materiale bellico. Con tutto quel denaro la povertà di entrambi i paesi sarebbe stata debellata da tempo.
E gli appelli di Gandhi alla pace religiosa tra musulmani e indù finì per costargli la vita...
Sì. Nel 1948 fu assassinato da un nazionalista indù.
L’omicidio è tragicamente presente nella storia della sua famiglia e non soltanto a causa di suo nonno. Anche suo figlio è stato ucciso. Riesce a perdonare l’assassino?
Sull’omicidio di mio figlio nel 1993 non è mai stata fatta luce. È avvenuto nel turbolento periodo di transizione precedente le prime elezioni nel 1994, quando il Sudafrica era sull’orlo della guerra civile. Ma non nutro alcun sentimento di vendetta nei confronti dell’assassino di mio figlio. Vorrei però sapere: era un omicidio politico su commissione o si trattava del crimine di un singolo individuo?
Il mondo è caratterizzato da guerre e dittatori. Il metodo nonviolento satyagraha ha fallito?
Non lo dimentichi: due anni fa in Sudan il popolo ha ottenuto la caduta del dittatore di lungo corso Omar al-Bashir grazie alla resistenza nonviolenta e non si è lasciato scoraggiare dalla repressione. (da reformiert.; intervista di Delf Bucher; trad. it. G. M. Schmitt; adat. P. Tognina)