Visita nelle Valli valdesi del Piemonte sulle tracce dell’antifascismo
I valdesi opposero resistenza al fascismo e al nazismo, aderendo alla lotta armata o procurando informazioni. Il ricordo dei protagonisti di allora. La collega di reformiert.info Constanze Broehlemann ha incontrato alcuni ex-partigiani valdesi ancora in vita.
(reformiert.info) Ha l’aspetto di un simpatico nonnetto. Anche con il caldo dell’estate italiana Giulio Giordano indossa pantaloni con la piega e camicia. A Torre Pellice, sua città natale, sono soliti chiamarlo “Giulietto”. Soltanto l’appariscente fazzoletto verde che porta al collo tradisce il fatto che la sua biografia è stata contrassegnata da guerra, lotta e violenza.
Le lettere G e L stampate sul suo foulard stanno per “Giustizia e Libertà”, il nome del gruppo partigiano di cui l’oggi 99enne Giordano faceva parte durante la seconda guerra mondiale. Quella che per le persone non coinvolte suona come una scelta molto coraggiosa fu per Giordano una conseguenza naturale della sua educazione: “Con la famiglia che ho avuto non sarei potuto diventare altro che partigiano”. I suoi genitori erano tra le poche persone di Torre Pellice che allora non avevano aderito al partito fascista. “Mio padre diceva sempre: non raccontate a nessuno ciò di cui parliamo a casa”.
Era guerra civile
La statura minuta di Giordano è stata la sua fortuna. Quando i fascisti vollero arruolarlo nell’esercito venne scartato perché non idoneo. Era quindi libero per la resistenza. Nelle colline e nelle valli del Piemonte si formavano continuamente nuovi gruppi partigiani. L’area in cui operavano aveva un’estensione di circa 100 chilometri quadrati e le armi erano depositate in una stalla sui monti.
“Certo che abbiamo anche ucciso”, dice Giulio Giordano. “C’era in atto una guerra civile”. Gli ordini provenivano da un comitato di liberazione nazionale. Ogni gruppo partigiano disponeva di un tribunale che nel giro di 24 ore doveva decidere in merito al destino degli ostaggi.
Un’arma incruenta dei partigiani era il giornale clandestino “Il Pioniere”. L’idea era sorta all’interno del gruppo “Giustizia e Libertà”, formato da ex allievi e insegnanti di estrazione valdese. Giordano era il creatore, il redattore e il distributore del foglio nato nel giugno del 1944. Vecchie copie ingiallite permettono ancora oggi di leggere informazioni sulla situazione politica mondiale di allora e sugli sviluppi in loco. La stampa avveniva in tutta segretezza. Entro la fine del 1945 i fascisti perquisirono la tipografia undici volte, senza mai trovare nulla.
Raccontare la verità
Giordano vive da solo in un appartamento. I suoi vicini vanno di tanto in tanto a controllare come se la passa. Da anni è presidente dell’ANPI, l’Associazione nazionale dei partigiani italiani, sezione Torre Pellice. L’ANPI fu fondata a Roma nel 1944 da membri della “Resistenza”, il movimento di resistenza contro il fascismo. Da qualche tempo il numero dei suoi membri è tornato a crescere. “Dobbiamo raccontare la verità. Cioè, che gli italiani erano fascisti. E che oggi in questo paese non c’è più una chiara posizione antifascista”, dice Giordano.
A Torre Pellice si trovano dappertutto testimoni silenziosi della resistenza. Su lapidi e targhe vengono ricordate persone che hanno perso la vita. Molte e molti abitanti della cittadina circondata dai monti e delle aree limitrofe hanno coperto le azioni dei partigiani.
“Mera statistica”
L’impronta valdese della valle spiega forse perché proprio qui così tante persone hanno combattuto contro i fascisti, dice Giordano. Come ex perseguitati erano forse più sensibili alla mancanza di libertà. “Ma mi rifiuto di affermare che la resistenza era una ‘resistenza valdese’. Era la resistenza della gente della valle, che è in maggioranza valdese. È mera statistica”.
A questo punto Giordano si scusa e afferra il telefono. Prenota un tavolo per il pranzo per sé e per i suoi amici. È pieno di gioia di vivere, l'anziano partigiano.
Questo ottobre Maria Airaudo festeggia il suo 100. compleanno. Vive con la sorella 96enne in un appartamento di Luserna San Giovanni, in Val Pellice. Si prendono cura l’una dell’altra. Ogni tanto passa il nipote da Torino per vedere come se la passano le anziane signore.
Maria Airaudo non ha messo su famiglia. “Non avrei mai voluto dover mandare un figlio in guerra”. La guerra fa ancora venire le lacrime ai suoi occhi: “Credo che sia la cosa più terribile che le persone possano fare”. Secondogenita di sei figli, è cresciuta in una famiglia molto povera. A 13 anni iniziò a lavorare nell’azienda tessile Mazzoni: “Dovevo occuparmi di otto telai e venivo retribuita a cottimo”.
Armi in bicicletta
I fascisti italiani incaricarono l’azienda di confezionare abiti per l’esercito. La giovane Airaudo voleva però la fine della guerra, si unì alle sue colleghe e scioperò. Suo padre non fu il solo a criticarla per questa sua scelta. “Stai facendo di tutto perché ti uccidano”, le disse.
Nel gruppo partigiano Garibaldi trovò chi la pensava come lei. Da cosiddetta “staffetta” portava in bicicletta armi e informazioni da un gruppo di partigiani all’altro. “Per la mia protezione non conoscevo il contenuto dei documenti”.
Il 26 marzo 1945, la data è impressa indelebilmente nella sua mente, seppe di essere stata scoperta. Fu messa contro il muro, i suoi aguzzini spararono, la giovane cadde a terra. Tuttavia rimase in vita. La scheggia di un proiettile è a tutt’oggi conficcata in un polmone e le procura di tanto in tanto delle fitte.
“È importante insegnare ai giovani l’idea della pace”, dice. Per questo motivo Maria Airaudo è andata per anni nelle scuole per raccontare le sue esperienze durante la guerra. Per lei l’impegno profuso non è una questione politica, bensì umanitaria. “I giovani devono sapere che cos’è la guerra”. Poi torna a piangere: “Ho cercato di dimenticare, ma non è possibile”.
L’abitazione di Michelina Cesan è pulita e in ordine ed emana una piacevole tranquillità. È sera e gradualmente l’aria rinfresca un po’. La signora seduta al tavolo ha gli occhi svegli.
Cesan è nata a Torre Pellice nel 1930. “Ero molto giovane quando iniziai ad aiutare i partigiani, avevo 14 anni”, racconta. Accanto alla casa dei suoi genitori c’era una stazione radio nascosta. Con l’aiuto degli alleati due ingegneri e un telegrafista intercettavano le notizie. E dietro la casa della famiglia viveva qualcuno che era in rapporti con il comandante di un gruppo partigiano.
I fascisti tedeschi come vicini
I genitori di Michelina Cesan avevano tra i loro amici numerosi partigiani e li nascondevano o offrivano loro un rifugio quando scendevano in città dai monti. Una situazione particolarmente delicata, dal momento che in un’altra casa del vicinato i fascisti tedeschi avevano stabilito il loro centro di comando.
I genitori la trascinarono nella resistenza. “Come staffetta ero costantemente in giro in bicicletta. Davanti al centro di comando dei tedeschi stavo sempre particolarmente attenta” ricorda Cesan. Allora molte donne nella resistenza fungevano da corriere e si spostavano principalmente in bicicletta.
“Il sistema di comunicazione era sofisticato”. Cesan, per esempio, incontrava ogni sera l’ingegner Savonuzzi per uno scambio di informazioni a quattro chilometri da Luserna. E Savonuzzi a sua volta le portava notizie direttamente da Torino. “Avevo un buon pretesto per il giro quotidiano, in quanto i miei nonni vivevano a Luserna”.
Era “giovane e ingenua” quando rischiava la propria vita facendo la staffetta, dice la signora Michelina, che dopo la guerra lavorò per molti anni come insegnante di pianoforte. “Ma a quel tempo non si poteva fare ciò che si voleva, ma ciò che si doveva”. Da valdese può immaginare che il tradizionale spirito di libertà della sua chiesa tornasse utile alla lotta partigiana. Tuttavia sottolinea: “I partigiani erano cattolici, ebrei, studenti o lavoratori. C’era di tutto”.
Monica Barotto ha 31 anni e intende cambiare le cose. A differenza di parecchi giovani italiani che condividono sì il suo punto di vista, ma rimangono passivi, Barotto vuole agire.
Dal 2016 è attiva nell’ANPI (Associazione nazionale partigiani d’Italia) in qualità di vicepresidente a Torre Pellice e affianca l’ex partigiano della seconda guerra mondiale Giulio Giordano. Collabora nell’organizzazione di eventi e cura i canali social dell’associazione.
Barotto ha appreso attraverso i racconti di famiglia che cosa significava vivere sotto il fascismo. Il suo bisnonno, che lavorava nell’industria alimentare, fu incarcerato dai fascisti per aver dato carne a conoscenti affamati.
“Inoltre avevo un’insegnante che ci ha fatto acquisire familiarità con il tema della Resistenza e ci ha insegnato la nota canzone partigiana ‘Bella ciao’”. Nel corso dei suoi studi Barotto si è poi imbattuta nell’ANPI e ne è divenuta membro. “Non sono una partigiana, ma sono un’antifascista”. Dal 2016 l’organizzazione accoglie tra i suoi membri anche chi non ha fatto parte della Resistenza.
Monica Barotto, nel frattempo, è diventata lei stessa un’insegnante. Deplora che la storia italiana non venga insegnata come dovrebbe. “Non si collega il fascismo storico con gli sviluppi della nostra epoca”, constata. Ci si ferma a un: “C’era una volta”. E questo, per Barotto, è pericoloso.
Il fiore della resistenza
Per questo motivo con i suoi bambini in età prescolare tratta già storie, adeguate all’età, attraverso le quali affronta in modo giocoso il tema dell’emarginazione. “Dipingiamo anche i papaveri, il fiore tipico della Resistenza”. Poiché è in grado di crescere dappertutto, il papavero è considerato il fiore del movimento della Resistenza.
La valdese Barotto condivide i valori della sua chiesa. “Mi sostiene idealmente ed è per me una fonte di forza”. Per Barotto l’impegno per i migranti significa tanto quanto il sì alle relazioni omosessuali. “In quanto valdese so che cosa vuol dire quando le persone devono semplicemente essere cancellate a causa della loro religione o del loro approccio etico”. (Trad.: G. M. Schmitt)