La storia che sta dietro l’insurrezione a Capitol Hill
In occasione del primo anniversario dell’attacco sul Campidoglio di Washington D.C. avvenuto il 6 gennaio del 2021, il Berkley Center for Religion, Peace and World Affairs della Georgetown University ha raccolto una serie di contributi di accademici statunitensi sotto il titolo “La fede e l’insurrezione americana”. Voce Evangelica propone qui la traduzione della riflessione del sociologo e studioso delle religioni Philip Gorski.
Il 6 gennaio 2021 i riottosi che presero d’assalto Capitol Hill sembravano essere un gruppo di persone piuttosto eterogeneo: repubblicani da country club, social-conservatori in abito gessato ed evangelici bianchi con berretti inneggianti a Gesù… a fianco a cultori della teoria del complotto di QAnon, difensori del secondo emendamento in tuta mimetica, e convinti nazionalisti bianchi. Un gruppo aveva eretto una croce gigante, un altro un patibolo di legno. Qualcuno sventolava uno striscione con le parole “Jesus Saves” mentre un altro sfoggiava una felpa con su scritto “Camp Auschwitz”.
Ma guardando più da vicino, le cose si facevano più confuse. Cristiani sventolavano bandiere pro Trump. I “Proud Boys” si inginocchiavano e pregavano. Un uomo mascherato da crociato stringeva al petto una grossa Bibbia in pelle con guanti da scheletro. Ciò che sembrava un accostamento eterogeneo di mele e pere si rivelò essere un cocktail di frutta: il nazionalismo cristiano bianco.
Il nazionalismo cristiano bianco (White Christian Nationalism) è in prima istanza una storia sull’America. La narrazione è la seguente: l’America fu fondata come nazione cristiana da cristiani (bianchi) e le sue leggi e istituzioni nacquero in base al cristianesimo “biblico” (ossia protestante). Inoltre, l’America è - senza dubbio alcuno - la prediletta di Dio. Di qui la sua enorme ricchezza e la sua potenza. In cambio di queste benedizioni, all’America è stata affidata una missione: diffondere la religione, la libertà e la civiltà - con la forza, se necessario. Ma quella missione è messa a repentaglio dalla presenza crescente di non bianchi, non cristiani e non americani sul suolo americano. I cristiani bianchi devono quindi “riprendersi il paese”, il loro paese.
Il nazionalismo cristiano bianco non è soltanto una storia. È anche una visione politica. Violenza e purezza razziale sono elementi centrali di questa visione. Samuel Perry e Andrew Whitehead nel loro “Taking America Back for God” spiegano che i nazionalisti cristiani bianchi sono tendenzialmente favorevoli ad un esercito forte, alla pena capitale, nonché contrari al controllo delle armi. Il nazionalismo cristiano bianco è anche fortemente correlato con l’opposizione al matrimonio interrazziale, all’immigrazione non bianca, nonché alle quote rosa o a quelle per gli afroamericani.
Per comprendere come il cristianesimo americano sia finito per essere così invischiato nel razzismo e nella violenza bisogna prima risalire alle sue radici bibliche. Queste radici sono duplici, per cui il nazionalismo cristiano bianco è frutto non di una sola storia, ma di due.
La prima è la storia della terra promessa. I puritani arrivati nella Nuova Inghilterra si consideravano gli eredi degli israeliti biblici. Immaginavano sé stessi come “popolo eletto” e finirono per vedere nel “nuovo mondo” la loro “terra promessa”. E quando il loro rapporto con i nativi passò dalla curiosità all’ostilità, cominciarono a vedere gli indiani come “cananei” che dovevano essere conquistati.
La seconda storia è riferita alla fine dei tempi. La maggior parte dei teologi cristiani leggono l’Apocalisse in termini allegorici, come una descrizione di lotte morali all’interno del cuore del credente. Ma alcuni hanno interpretato il testo in modo più letterale, come una descrizione di sanguinose lotte future. È così che la leggevano molti puritani radicali, che esportarono queste idee nella Nuova Inghilterra.
Le due storie si sono gradualmente fuse durante le guerre seicentesche dei puritani contro gli indiani. Il pastore congregazionalista Cotton Mather (1663-1723) giunse a credere che il nuovo mondo sarebbe stato il campo di battaglia centrale nella lotta finale tra il bene e il male. Schierò sé stesso e i suoi parrocchiani dalla parte del bene e considerò i cattolici francesi e i loro alleati nativi come espressione del male. Paragonò gli indiani a demoni e considerò l’uccisione di indiani come un sacrificio di sangue a un Dio adirato. Nel nuovo mondo a saldare insieme protestantesimo e inglesità fu infatti la guerra.
Ma in che modo il protestantesimo e l’inglesità si intrecciarono con la bianchezza? Per rispondere a questa domanda abbiamo bisogno di spostare l’attenzione sulla Virginia. Lì, e altrove, la giustificazione più comune della riduzione in schiavitù di indiani e africani era quella riferita al fatto che si trattava di “pagani”. Ma questa argomentazione crollò quando nel tardo diciassettesimo secolo alcuni cristiani bianchi cercarono di evangelizzare gli schiavi, per cui alcune persone ridotte in schiavitù si convertirono al cristianesimo. Il problema fu risolto inizialmente spostando la base legale della schiavitù dalla religione al colore: i “neri” potevano essere schiavi; i “bianchi” non potevano esserlo. Fu poi risolto più compiutamente creando una nuova base teologica per la schiavitù. Forse la più influente fu la “maledizione di Cam”. I neri erano i discendenti del figlio di Noè, Cam, questa era l’argomentazione, e il loro colore e la schiavitù cui erano soggetti erano la conseguenza della maledizione invocata da Noè sul figlio.
Tuttavia, il nazionalismo cristiano bianco per diventare prettamente americano, ci mise un altro secolo. Fino alla Rivoluzione americana la maggior parte dei coloni si considerava ancora inglese. Fu soltanto dopo la Rivoluzione che cominciarono a vedersi come “americani”. Fino ad allora il termine “americano” era usato più spesso in riferimento ai popoli nativi. Ma sostenere di assomigliare agli americani (nativi), diventò per gli americani (bianchi) un modo per distinguersi dai loro “cugini” britannici. L’uomo americano era un po’ più selvaggio, un po’ più violento dei suoi progenitori inglesi. Era, in un certo senso, il vero erede dell’indiano che stava (presumibilmente) scomparendo; era lui, l'americano, il vero abitante della “frontiera”. L’americano bianco aveva in sé tracce dell’americano pellerossa.
Il nazionalismo cristiano bianco è quello che il linguista George Lakoff chiama un “frame” (inquadratura). Un “frame” è come l’ossatura di una sceneggiatura cinematografica. “Ci sono dei ruoli (come nel caso di un cast di personaggi), relazioni tra i ruoli e scene interpretate dai personaggi”. Alla stessa stregua di un film, può essere fatto e rifatto, con attori nuovi e scene diverse. L’“uomo della frontiera” diventa un “cacciatore di indiani” e poi un “cowboy”. Il set si sposta dall’Appalachia al Kentucky, al Wyoming.
Il trumpismo è solo un’ultima versione del “frame” nazionalista cristiano bianco. Riproponendo la storia della terra promessa Trump fa intendere che “si riprenderà il paese” togliendolo a chi è venuto “da fuori” e agli invasori che ne hanno assunto il controllo - immigrati e secolaristi, musulmani e messicani - e che lo restituirà ai suoi legittimi proprietari, i “veri” (cioè bianchi e cristiani) americani. Ricalcando la storia della fine dei tempi Trump dipinge il mondo sulla contrapposizione del “noi e loro”, del “bene e male”, e allude a violente lotte future. La prima di queste lotte ha avuto luogo il 6 gennaio 2021. Non sarà, temo, l’ultima.
Philip Gorski è professore di sociologia e studi religiosi all’Università di Yale. È condirettore (con Julia Adams) dello Yale’s Center for Comparative Research e codirige il Religion and Politics Colloquium allo Yale MacMillan Center. È autore di American Covenant: A History of Civil Religion from the Puritans to the Present, e di The Disciplinary Revolution: Calvinism and the Growth of State Power in Early Modern Europe.
L'articolo, pubblicato originariamente il 13 gennaio 2021 da ABC Religion & Ethics è stato ripubblicato in questi giorni dal Berkley Center (trad. it: G. M. Schmitt; adat.: G. Courtens).