Nel centenario della nascita rivisitiamo il rapporto che ebbe con la religione
L’opera letteraria dello svizzero Friedrich Dürrenmatt (1921-1990), tra i maggiori autori di lingua tedesca del 20.esimo secolo, di cui oggi ricorre il centenario della nascita, può senz’altro essere associata alla religione. Ne è convinto il teologo Andreas Mauz, ricercatore presso l’Istituto di ermeneutica e filosofia della religione dell’Università di Zurigo, curatore - insieme a Ulrich Weber e Martin Stingelin - del manuale Dürrenmatt - Handbuch. Leben, Werk, Wirkung, edito da J.B. Metzler (per lo Spriger-Verlag), e in uscita in questi giorni.
Andreas Mauz specifica che, quando parliamo di Dürrenmatt e di religione, parliamo innanzitutto di cristianesimo e, in prima istanza, di “protestantesimo protestante” nel senso di “contestatario”, con al centro la tensione che esiste tra fede, dubbio e conoscenza. Figlio di un pastore riformato, e più tardi anche padre di un pastore, nel corso della sua intera esistenza di drammaturgo e narratore, Dürrenmatt si dedicò intensamente e in modi sempre nuovi al fenomeno religioso verso il quale tuttavia nutriva un sentimento di attrazione e repulsione. La sua critica della religione, pertanto, va sempre di pari passo con la critica delle ideologie, e in generale delle istituzioni, fa notare Mauz.
La dissertazione, che Dürrenmatt abbandonò, insieme agli studi accademici, preferendo dedicarsi alla scrittura e alla pittura, avrebbe dovuto intitolarsi: “Di Søren Kierkegaard e del tragico”. Non stupisce allora che la sua narrativa sia costellata di elementi che si rifanno non solo alla filosofia soggettivistica tipica del teologo ottocentesco danese, ma anche alla strategia comunicativa attraverso il “messaggio indiretto”, come sottolinea Mauz, mettendo cioè in campo un’equivocità calcolata che si traduce nell’uso parabolico e metatestuale della rappresentazione. Non meno importante fu per Dürrenmatt l’influenza del teologo svizzero Karl Barth, di cui lesse la monumentale “Dogmatica ecclesiale”, e che forgiò la sua comprensione di Dio. Rimane emblematica la frase pronunciata da Dürrenmatt: “Barth mi fece ateo” - ma non per questo fu meno curioso del fatto religioso, anzi. Tra i numerosi riconoscimenti ottenuti nel corso della sua vita c’è da annoverare, nel 1983, il titolo honoris causa di dottore in teologia conferitogli dall’Università di Zurigo.
Prendiamo ad esempio la sua commedia “Un angelo a Babilonia” (1953). Qui Dürrenmatt - attingendo all’immaginario biblico del mito della Torre di Babele - ad un Dio perfetto e onnisciente oppone un Dio distratto, “il quale dimentica le proprie creazioni”; un Dio incapace di comprendere ciò che, pur avendolo generato, non conosce. Parimenti, gli uomini, frustrati dal loro non riuscire più a vedere la luce celeste dentro loro stessi, si consegnano alla confusione linguistica compromettendo la speranza di una redenzione risolutiva. Significativa è la chiosa che accompagna il testo, e che è firmata dal suo autore in terza persona: “Con questo scritto F.D. si prende evidentemente gioco di qualcuno: o del Cielo o dei potenti o dei teologi o di tutti noi, o anche di se stesso. Di chi, non è ancora riuscito a capire”. (www.duerrenmatt21.ch)
(Questo articolo è stato pubblicato nel numero di gennaio 2021 del mensile cartaceo "Voce Evangelica". Per abbonarsi scrivere a voceevangelica@bluewin.ch)