La nostra etica messa alla prova dalla questione asilo

Corridoio umanitario verso la Svizzera?

01 settembre 2024  |  Christine Voss

Dopo l’Italia, la Francia e il Belgio, a breve dovrebbe partire anche in Svizzera un primo progetto pilota gestito da alcune realtà ecclesiastiche e della società civile, tra cui la “Carta delle migrazioni”, teso ad accogliere alcuni profughi vulnerabili attraverso un corridoio umanitario. È quanto si apprende da un’intervista di Christine Voss al teologo riformato Pierre Bühler pubblicata nel numero di settembre 2024 della rivista Neue Wege. Proponiamo qui, con la gentile concessione della giornalista e del gruppo redazionale di Neue Wege, la versione italiana dell’intervista.

Disegno di Francesco Piobbichi/Mediterranean Hope FCEI

Per persone e istituzioni impegnate nel settore dell’asilo è chiaro: c’è urgente bisogno di vie di fuga sicure per persone vulnerabili. Una coalizione di diverse chiese e organizzazioni della società civile cerca attualmente soluzioni per la Svizzera. Uno dei soggetti coinvolti è il professore emerito di teologia Pierre Bühler.

Pierre Bühler, al momento lei sta elaborando, insieme con altri attivisti, un progetto di corridoi umanitari verso la Svizzera. Come dobbiamo immaginarci questi corridoi?
I corridoi umanitari sono vie di fuga protette da paesi in cui imperversano guerra, persecuzione, violenza e indigenza. Attraverso questi corridoi persone particolarmente bisognose di protezione devono poter raggiungere un altro paese ed esservi accolte come rifugiati. Come persone bisognose di aiuto, quindi persone cosiddette vulnerabili, si intendono le famiglie con bambini piccoli, individui vecchi e malati, invalidi o vittime di torture e violenze. Mediante l’introduzione dei corridoi di fuga si mira soprattutto a una riduzione delle pericolose traversate del Mediterraneo in barca in cui così tante persone hanno già trovato la morte.
Di solito l’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, seleziona nei campi profughi le persone maggiormente bisognose. Secondo il progetto da noi elaborato i nuovi arrivati in Svizzera saranno accolti da volontari, appositamente formati per questo compito dalle organizzazioni ecclesiali. Anche la fornitura di alloggi e l’accompagnamento sociale saranno assicurati in gran parte dalle chiese e da altre organizzazioni della società civile che aderiscono alla coalizione.

E questo tipo di immigrazione è legale?
Sì, tutto il progetto deve essere realizzato in collaborazione e con l’approvazione della Confederazione, dei cantoni e dei comuni. Le organizzazioni ecclesiali e della società civile si impegnano, da parte loro, a mettere a disposizione spazi abitativi e a sostenere i costi per la durata di almeno un anno. In questo modo viene confutato l’argomento tanto spesso addotto che i posti a disposizione per accogliere i rifugiati sono troppo pochi.

E come provvedono le chiese a questi alloggi?
Alcune chiese dispongono di locali scarsamente utilizzati, altre devono ancora cercarli. Secondo noi si potrebbe ottenere molto con le riconversioni di destinazione d’uso.

Ma la Svizzera non accoglieva già prima persone vulnerabili provenienti dai campi profughi?
Sì, è il cosiddetto piano di ricollocamento europeo (resettlement) a cui la Svizzera prende parte. Ma poco prima di Natale del 2022 la signora Keller-Sutter ha sospeso la partecipazione, poiché con i tanti profughi in più provenienti dall’Ucraina la pressione sui cantoni è aumentata. In altri paesi, tuttavia, il programma di ricollocamento è tuttora in corso. Con il nostro progetto riprendiamo quindi in sostanza una tradizione a lungo presente in Svizzera. Non vogliamo, però, che il nostro progetto rimpiazzi semplicemente il programma di ricollocamento statale.

In che modo il gruppo con cui collabora è arrivato all’idea di recuperare il concetto di corridoi umanitari?
Ci siamo ispirati alle attività in Italia, Francia e Belgio. L’Italia è stata pioniera in questo campo. Quando a ottobre del 2013 300 persone hanno perso la vita al largo di Lampedusa in seguito al naufragio dell’imbarcazione su cui viaggiavano, gran parte della popolazione è rimasta scioccata. Alcuni gruppi legati alle chiese hanno preso allora l’iniziativa di proporre alternative. Un ruolo determinate lo ebbero la Chiesa valdese e la Comunità cristiana di Sant’Egidio, un movimento di base nato a Roma nel 1968 e che da allora si è esteso a molti altri paesi. Anche in Francia e in Belgio la Comunità di Sant’Egidio ha preso l’iniziativa di creare corridoi umanitari, lì in collaborazione con le chiese evangeliche. Siamo convinti che ciò che è stato realizzato in Italia e in altri paesi europei deve essere possibile anche in Svizzera.

E chi sono le persone che in Svizzera collaborano a questo progetto?
La riflessione sul problema delle vie di fuga è stata lanciata dalla “Carta delle migrazioni” (migrationscharta.ch). Un anno fa abbiamo quindi organizzato una riunione informativa da cui è poi nata una coalizione di forze ecclesiali e della società civile, per esempio organizzazioni umanitarie e ONG. Questa coalizione, che adesso è competente in merito, ha affidato a un gruppo di lavoro l’incarico di elaborare una bozza preliminare e sviluppare quindi ulteriormente il progetto.

Qual è la situazione in questo momento? Ci sono possibilità che la coalizione riesca a concretizzare le vostre idee?
Ci sono stati i primi contatti con la SEM, la Segreteria di Stato della migrazione della Confederazione, e con uffici statali ed ecclesiastici. La reazione alle nostre idee è stata sinora cautamente positiva, ma una autorizzazione ufficiale non è ancora pervenuta. Sono necessari ulteriori chiarimenti. Serviranno però anche parrocchie, città e privati cittadini che siano disposti ad accogliere persone e assumersene la responsabilità.
Come primo passo vogliamo volutamente avviare un piccolo progetto pilota. Potremo così acquisire le prime esperienze e, se il progetto si rivelerà riuscito, svilupparlo ulteriormente.

Che cosa si aspetta dal progetto?
In primo luogo è semplicemente un’opportunità per offrire nuove prospettive ai profughi vulnerabili, che sono tra le persone più fragili del nostro mondo. L’idea è che chi deve abbandonare contesti in cui la propria vita è in pericolo non debba rischiare la morte anche durante la fuga. Si tratta però anche, fondamentalmente, di una buona collaborazione tra chiese e società civile. Ciò avrebbe effetti positivi per entrambe le parti: le chiese, se più coinvolte nelle questioni sociali, sarebbero di nuovo meglio percepite. La mia impressione è che negli ultimi tempi si siano occupate troppo di sé stesse. Sarebbe invece di aiuto per la nostra società odierna se le chiese venissero viste come interlocutrici affidabili.

Ma è altrettanto importante, per noi, che il nostro progetto non vada a sostituire il programma statale di ricollocamento. Non vogliamo che all’improvviso si pensi che, poiché ora le chiese si occupano dei rifugiati, lo Stato non debba fare più niente. Noi consideriamo il nostro progetto una prestazione complementare a quelli che sono gli obblighi dello Stato, nel migliore dei casi uno sprone per lo Stato a intraprendere più iniziative proprie.

Vi aspettate resistenze? Molte persone in Svizzera pensano che ci siano già abbastanza rifugiati.
Le resistenze non mancheranno di certo. Ma non è assolutamente un motivo per non agire. Inoltre, ci sono sempre più persone che dicono: “Non si può continuare con le morti nel Mediterraneo, non possiamo semplicemente voltarci dall’altra parte”. Percepisco attualmente una comprensione crescente per quello che facciamo. Perciò è importante coinvolgere la società civile, che è assolutamente disposta a fare qualcosa.

Una domanda personale: che cosa l’ha spinta a impegnarsi così strenuamente nel settore dell’asilo?
È una storia lunga! In parte c’entra sicuramente il fatto che mia moglie è da tempo attiva quale consulente legale e assistente sociale per famiglie di rifugiati. Per suo tramite sono venuto a conoscenza dei destini di molte di queste persone. Ma c’entra anche il fatto che provengo da una famiglia battista, quindi conosco fin troppo bene i temi della persecuzione e della fuga a causa della nostra storia familiare. Mi sono interessato molto anche alla storia degli ugonotti. Oggi molte cose sono simili ad allora.
Nel 1982 mi è stata assegnata una cattedra all’Università di Neuchâtel. A differenza di Zurigo, tra i miei compiti c’era anche la docenza di un corso di etica. Mi ha reso sempre più consapevole della centralità del tema dell’asilo. Come andare incontro ai profughi, come aprirsi alle persone in difficoltà, sono elementi di una fondamentale questione etica. Direi addirittura che il tema dell’asilo è il banco di prova della nostra etica. Non c’è da meravigliarsi che il tema susciti anche notevoli resistenze. Secondo me, anzi, è un sintomo della sua importanza.

Quanto conta il background teologico nel suo impegno – o più concretamente: l’impegno è per lei una questione di fede cristiana?
Sono chiaramente influenzato dal mio background biblico-teologico. È anche per questo che ho contribuito a un libro* di prossima pubblicazione in cui diversi teologi e teologhe danno la loro interpretazione di passi biblici che trattano di profughi o, come li chiama spesso la Bibbia, “stranieri”.
Un passaggio chiave per me sono i primi versetti del capitolo 13 della lettera agli Ebrei, in cui si legge: “Continuate ad amarvi come fratelli. E non dimenticate di essere ospitali verso gli stranieri, perché alcuni, facendo così, hanno accolto senza saperlo degli angeli! Ricordatevi dei carcerati. Soffrite con loro, come se anche voi foste in carcere. Non dimenticate quelli che sono maltrattati, perché ben sapete che cosa provano” (Ebrei 13, 1-3).
“Essere ospitali verso gli stranieri” traduce la parola filoxenia del testo originale greco. Spesso il termine è stato semplicemente tradotto con “ospitalità”. Tuttavia significa letteralmente “amore per lo straniero” (da “philein”, amare, e “xenos”, il forestiero o lo straniero). “Filoxenia” è quindi l’opposto di “xenofobia”, la “paura dello straniero” (da “phobos”, paura).
In un’accezione più ampia questi versetti mi dicono: la fede cristiana vive del non costruire muri intorno a sé, ma del varcare i confini, del non chiudersi, ma dell’aprirsi, anche a ciò che appare estraneo. I profughi sono il caso più estremo di stranieri. Vengono da noi impotenti, deboli, perseguitati, e con ciò diventano lo specchio delle nostre proprie debolezze, delle nostre stesse vulnerabilità, del nostro stesso essere stranieri. I profughi sono una sfida, perché nel nostro rapporto con loro dobbiamo confrontarci anche con noi stessi.
Perciò Levitico 19, 34 afferma: “Tratterete lo straniero che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso; poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”. (Da: Neue Wege; trad.: M. G. Schmitt; adat.: G. Courtens)

Pierre Bühler (*1950), è stato professore di teologia sistematica presso le Università di Neuchâtel e di Zurigo. Oggi è pensionato e vive a Neuchâtel. Collabora con la rete “Carta delle migrazioni”, partecipa attivamente all’azione “Les nommer par leur nom” (Chiamarli con il loro nome) nella Svizzera francese e ha scritto per le Erwägungen il manifesto “Le chiese tacciono o fanno sentire la loro voce?” (numero 9.22).

* Migration in der Bibel und heute. Die Migrationscharta – biblisch erkundet. (“La migrazione nella Bibbia e oggi. La Carta della migrazione – un’analisi biblica”) TVZ 2024. Presentazione del libro il 25 settembre alle 19 presso la Offene Kirche St. Jakob, Zurigo.

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