Intervista con Véronique Jaquier Erard, psicologa e criminologa
(Réformés.ch) Con una formazione in psicologia e una in criminologia, Véronique Jaquier Erard - docente del Centre romand de recherche en criminologie della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Neuchâtel - svolge ricerche nel campo della vittimologia.
Le violenze sessuali sono crimini di potere. A partire dal momento in cui una persona ha un ascendente su un’altra, questo rapporto di potere può essere strumentalizzato. Che sia una relazione tra un adulto e un bambino o una relazione con una persona di fiducia o di riferimento, c’è il rischio che una delle persone voglia affermare il proprio potere sull’altra. Ma le cause delle violenze sessuali sono molteplici; i fattori situazionali, come un luogo, delle opportunità o l’assenza di supervisione possono esercitare un ruolo. C’è anche una dimensione strutturale: all’interno di una chiesa le persone che occupano posizioni statutarie possono sfruttare tale potere a fini sessuali. Si constata che, tra i minori, la sfera del pericolo di un’aggressione sessuale si sposta man mano che i bambini crescono. Si passa dalla cerchia familiare ristretta ai giovani della stessa età e ai diversi ambienti istituzionali frequentati.
Gli aggressori ricorrono spesso a molteplici tattiche per esercitare il loro controllo: regali, promesse, manipolazione psicologica, ricatto economico, molestie sessuali. Schemi del genere si ritrovano nelle coppie, nelle relazioni di lavoro e anche nel contesto religioso. Il potere e il controllo sono inerenti a ogni relazione asimmetrica. In certe situazioni può esserci un momento in cui la vittima considera l’interesse mostrato dall’aggressore come qualcosa di gratificante. Quando la vittima si rende conto che quel che succede non è “ok”, può sorgere una forma di senso di colpa, un senso di responsabilità da assumere, rispetto a sé e rispetto alla collettività. Questo spiega il silenzio di una parte delle vittime.
Ogni vittima vive le cose in maniera diversa. Ma effettivamente per alcuni è difficile risolvere la discrepanza che emerge quando una persona apprezzata, rispettata, commette atti inaccettabili. Soprattutto in un gruppo o in una comunità dove può rivelarsi complicato assumere una posizione in contrasto con l’opinione dominante. In quanto società incontriamo le stesse difficoltà quando l’immagine che abbiamo di una persona e la fiducia che le accordiamo non corrispondono al suo comportamento. A volte è più facile dirsi che a mentire è la vittima, piuttosto che ammettere di essersi sbagliati riguardo all’accusato.
Una vittima di aggressione sessuale prova spesso forti emozioni negative: il senso di colpa per aver fatto o non fatto qualcosa, la vergogna per essere stata lusingata, la collera per essersi lasciata manipolare. Colpevolizzarla perché è rimasta in silenzio non la aiuterà affatto. Alcune persone hanno bisogno che la giustizia si esprima per poter fare un altro passo, altre no. Questo va rispettato. Peraltro la narrazione prevalente, e forse i media svolgono un ruolo negativo al riguardo, è che rivolgersi alla giustizia in caso di aggressione è spesso un’esperienza negativa. Ma conosco vittime per le quali la procedura è stata positiva, per quanto dolorosa. Bisogna però riconoscere che per molti rappresenta uno scoglio. Oggi le vittime parlano di più, probabilmente grazie a #metoo. Uno degli slogan del movimento era “la vergogna deve cambiare sponda” e, infatti, si constata che nell’opinione pubblica certi comportamenti che erano, a torto, tollerati non lo sono più. Queste trasformazioni sociali hanno effetti positivi sull’accoglienza e il sostegno alle vittime.
Ovviamente, alla fine, all’origine di ogni atto di violenza c’è una persona che trasgredisce la legge. Ma, senza sminuire la responsabilità dell’aggressore, bisogna prendere coscienza che c’è una dimensione sociale della violenza e quindi una responsabilità collettiva. Ciò che viene detto nella società o all’interno di una comunità, i comportamenti che sono accettati e valorizzati, hanno un’influenza sugli atti individuali. Si usa spesso l’esempio delle barzellette sessiste: tollerarle, per esempio in una azienda, crea un clima favorevole ad altre violenze sessuali, come le molestie. Anche se coloro che raccontano queste barzellette non sono necessariamente gli stessi che dopo molestano.
Non mi sono occupata in modo specifico della questione delle violenze nella chiesa, ma la sua interpretazione è corretta. La struttura di una chiesa, il suo modo di operare, le relazioni che instaura tra le persone sono fattori suscettibili di facilitare le violenze sessuali – e il silenzio che le circonda. Bisogna riconoscere i rapporti di potere inerenti a queste istituzioni, in particolare quando si tratta di relazioni tra adulti e bambini. Sono gli adulti che fissano dei limiti ai bambini, ma sono sempre loro che danno un nome alle relazioni e definiscono ciò che è normale. E questo potere può essere sfruttato a fini sessuali. Alla fine ogni persona in una posizione di potere dovrebbe interrogarsi sul modo in cui usa tale potere, qualunque sia il contesto: accompagnamento spirituale, educazione, terapia, cure ecc. Facendo ciò si constata che non tutto è bianco o nero. Le persone manipolatrici sanno sfruttare molto bene l’ambiguità di certe relazioni. Manipolazioni del genere alimentano il senso di colpa delle vittime, come già evocato: il fatto di sentirsi complici dell’aggressore perché non lo si è respinto nell’immediato. Ed è su questo sentimento che si può agire collettivamente, ricordando che le vittime non sono mai responsabili dell’aggressione subita, né colpevoli.
Diciamo che in quanto ricercatrice sono dispiaciuta ogni volta che un finanziamento non viene concesso. Detto ciò, l’Ufficio federale di statistica sta preparando un sondaggio sulla violenza di genere. Se verrà esteso a diversi ambiti della vita, come hanno fatto in altri paesi, e a seconda delle domande poste, non è impossibile che vengano alla luce anche le violenze nelle istituzioni religiose.
(trad.: G. M. Schmitt)