Religione nei conflitti, quale approccio?

Capire le dinamiche dei conflitti è essenziale per gestirli

27 giugno 2024

(foto: Zaur Ibrahimov/Unsplash)

La religione può tanto inasprire i conflitti quanto contribuire a risolverli. Ma come si spiega questa ambivalenza, e soprattutto: esistono approcci che consentono di attivare il potenziale di promozione della pace delle religioni? Katharina Heyden, docente di Storia antica del cristianesimo e di “Incontri interreligiosi” all’Università di Berna, studia il ruolo della religione nei conflitti sociali. Questo suo contributo è tratto da religion.ch.

(Katharina Heyden) Raramente la religione rappresenta l’unica causa dei conflitti sociali o politici, ma ne è spesso una forza trainante. Ha il grande potenziale di inasprire i conflitti e si presta a essere usata per fomentare la guerra. Ma la religione può anche contribuire a una gestione costruttiva dei conflitti sociali ed effettivamente lo fa. Come spiegare tale ambivalenza, dal momento che il desiderio e l’aspirazione di ogni religione sono volti alla pace interiore ed esteriore delle persone? E come possiamo attivare il potenziale di promozione della pace delle religioni e tenere invece a freno il loro potenziale di inasprimento dei conflitti?

Riconoscere le dinamiche di conflitto a diversi livelli
Per riconoscere quale sia il ruolo della religione nelle dinamiche complesse dei conflitti è utile distinguere tra i diversi livelli di un conflitto e le dimensioni della religione per essi rilevanti.
Un primo livello è la causa del conflitto. La maggior parte dei conflitti ha origine da una mancanza reale o percepita. Può essere una mancanza di beni materiali come spazio vitale, acqua, materie prime, energia, oppure di beni immateriali come accesso alla formazione o libertà, anche libertà religiosa.
Il secondo livello è lo sviluppo o il consolidamento delle identità di gruppo nei conflitti. La disputa intorno ai beni insufficienti viene condotta tra gruppi già esistenti o che vanno formandosi durante il conflitto. L’appartenenza religiosa ha spesso un grosso ruolo nell’identità dei gruppi, accanto ad altri aspetti come per esempio l’origine, il genere e lo status sociale.
Un terzo livello del conflitto è il “discorso”, o la narrazione. Il discorso religioso sa interpretare eventi ed esperienze con riferimento a una potenza superiore. Inoltre, è in grado di mettere in connessione perdita e speranza con storie antiche e promesse sacre. Perciò, a livello discorsivo, queste narrazioni sono particolarmente efficaci.

Conflitto in Medioriente: non è in primo luogo un conflitto religioso
Quindi, in un conflitto la religione può entrare in gioco a diversi livelli. È perciò importante chiedersi, per ogni conflitto concreto, in quale punto esatto la religione diventa rilevante e in che modo. Nel conflitto in Medioriente, per esempio, che molti considerano paradigmatico di un conflitto religioso, la causa non è in primo luogo religiosa, ma risiede nella mancanza di spazio vitale e di risorse.
Questo conflitto, però, è stato e viene combattuto tra gruppi che dai tempi del mandato britannico nella regione sono stati identificati su basi religiose, quali ebrei e musulmani. Ciò ha condotto a una equiparazione semplicistica tra caratteristiche identitarie etniche, culturali e religiose. Di conseguenza non soltanto l’intero conflitto è apparso come scaturito da motivazioni religiose, ma a tutt’oggi si perdono di vista determinati gruppi, come i palestinesi cristiani o i baha’i israeliani.
A ciò si aggiunge la narrazione religiosa della “santità” di quella terra sviluppatasi storicamente. Anche gli ebrei laici motivano la loro rivendicazione della terra facendo riferimento alla Tanakh, la Bibbia ebraica. La resistenza palestinese e il terrorismo contro Israele possono a loro volta essere legittimati e alimentati con il concetto islamico della jihad. E la storia della dominazione dei crociati nel Medioevo viene spesso presentata, nella rielaborazione turistica, come un legame storico dello Stato di Israele con il mondo occidentale.
La distinzione tra livelli di conflitto e dimensioni del religioso non offre di per sé ancora alcuna soluzione per i conflitti. Può però aiutare a meglio comprendere il potenziale e l’effetto della religione in conflitti concreti. Ciò può a sua volta aiutare gli attori religiosi a usare consapevolmente questi potenziali e gestire i conflitti in modo tale da promuovere la pace.

Competizione, conflitto, guerra
Nell’uso odierno la parola “conflitto” ha un’accezione prevalentemente negativa e viene rapidamente associata a violenza e guerra. Più in generale, però, i conflitti possono anche essere intesi, in linea con il sociologo Georg Simmel (1858-1918), come forza trainante dello sviluppo e delle trasformazioni sociali. I conflitti e la capacità di sostenere i conflitti sembrano persino necessari per una società sana. Una convivenza pacifica di persone e gruppi di interesse diversi è pressoché inconcepibile senza competizione e confronto. La sfida consiste nel mantenere i conflitti nonviolenti e costruttivi in modo tale che non degenerino nella violenza e nella guerra.
Ebraismo, cristianesimo e islam condividono una storia ricca di conflitti, fortemente segnata dalla competizione tra pretese di verità contraddittorie. Senza tale competizione la loro coesistenza sarebbe per motivi storici pressoché inconcepibile. Ciò non significa in alcun modo, però, che oggi musulmani, cristiani ed ebrei non possano convivere pacificamente. Ci si chiede soltanto se e come possano vivere la loro religione in modo tale da contribuire a una gestione dei conflitti sociali costruttiva e che promuova la pace.
Un punto di partenza dovrebbe essere l’accurata distinzione, che abbiamo già menzionato, tra aspetti religiosi e non religiosi nei conflitti sociali. Mancanza di spazio, fame, accesso negato alla formazione o all’acqua non possono essere risolti o sostituiti in modo religioso. Nei fatti, però, vengono spesso collegati alla retorica religiosa, non di rado da fondamentalisti religiosi. Ma come possono le comunità religiose contribuire con i loro rituali e la loro retorica a evitare che una sana competizione intorno alle verità di fede e alle rivendicazioni storiche degeneri in conflitti violenti o li inasprisca?

Potenza del linguaggio e potere dei simboli
La più grande opportunità che le religioni hanno di esercitare un’influenza è data dalla loro potenza del linguaggio e dal potere dei loro simboli. Quando oggi scoppiano conflitti violenti - atti terroristici o guerre - con dimensioni religiose, nelle società occidentali si osservano spesso due reazioni. Da un lato le prese di posizione “laiche” si affrettano a dare genericamente la colpa alle religioni. Dall’altro lato chi rappresenta le religioni coinvolte sottolinea con grande enfasi che la propria religione è in realtà pacifica ed è stata usata in modo contrario alla sua vera natura. Entrambi gli atteggiamenti sono tanto comprensibili quanto pericolosi e nella loro generalizzazione tanto giusti quanto sbagliati.
Ovviamente non c’è alcuna ricetta universale che indichi come le comunità religiose e i loro portavoce dovrebbero comportarsi per promuovere la pace. E naturalmente la forza della religione può essere impiegata tanto per la pace quanto per la guerra. Tre impulsi per la convivenza di ebraismo, cristianesimo e islam possono aiutare coloro che amano la pace a riconoscere e promuovere il potenziale di pace della propria religione in un quadro di responsabilità storica.

Attivare il potenziale di pace della religione
Per prima cosa sarebbe importante che tutte e tre le religioni affrontassero l’ambivalenza della propria tradizione. Nelle loro Sacre Scritture e nelle loro tradizioni teologiche tutte e tre hanno un potenziale di promozione della pace, quanto un potenziale di esaltazione della violenza. Non serve a niente che ogni comunità dichiari di essere la sola autenticamente pacifica. Infatti, ciò non corrisponde a verità e può addirittura condurre a indurire i fronti, perché entrambe le parti si accusano di mentire. Si otterrebbe molto di più se teologhe e teologi di tutte le religioni mostrassero come usare i passaggi della Tanakh, del Nuovo Testamento e del Corano che esaltano la violenza in maniera tale da promuovere la pace.
In secondo luogo ebrei, cristiani e musulmani farebbero bene a non interessarsi soltanto allo sviluppo delle proprie rispettive tradizioni, ma a riconoscere come le loro storie siano collegate e interdipendenti. In termini storici queste tre religioni non potrebbero comprendersi l’una senza le altre. Hanno sempre sviluppato e costantemente adattato le loro dottrine e regole di vita nel confronto con le altre. Ebraismo, islam e cristianesimo sono reciprocamente in debito. Chi riconosce questa verità storica sarà anche in grado di comprendere che è nell’interesse di ogni singola religione che anche le altre possano sussistere e prosperare.
Infine, filosofe e filosofi e teologhe e teologi di tutte e tre le religioni hanno la profonda e fondamentale convinzione che Dio è più grande e misterioso di quanto gli esseri umani possano comprendere. È sorprendente, e inquietante, che tale convinzione condivisa da tutti sia stata e sia così di rado fatta valere per la causa della pace. Chi la prende sul serio giunge alla conclusione che sarebbe una contraddizione in termini insistere sulla propria verità come l’unica possibile.
Da sempre i riti e i discorsi religiosi aiutano le persone a superare esperienze di perdita e disperazione e a trovare modi per esprimere il loro desiderio di una buona vita.
Se le religioni riuscissero a vivere anche ritualmente nella consapevolezza delle proprie potenzialità ambivalenti, delle storie intrecciate e dell'inafferrabilità del divino, non andrebbero più l'una contro l'altra nell’intento di difendere e proclamare le loro pretese di verità contraddittorie, ma sarebbero fianco a fianco per formulare e celebrare le aspirazioni umane. (Da: religion.ch; trad.: G. M. Schmitt; adat.: G. Courtens)

L'autrice di questo approfondimento è la teologa Katharina Heyden, nata a Berlino (DDR) nel 1977, docente di Storia antica del cristianesimo e di “Incontri interreligiosi” all’Università di Berna. Dal 2018 al 2022 ha diretto il gruppo di ricerca interfacoltà “Religious Conflicts and Coping Strategies”. Attualmente svolge attività di ricerca presso l’Institute for Advanced Study a Princeton (USA) sulla coproduzione storica di ebraismo, cristianesimo e islam.

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