USA. Columbus Day sì? Columbus Day no?

Il 9 ottobre gli Stati Uniti hanno celebrato la “scoperta dell’America”

11 ottobre 2023  |  Robert P. Jones

foto: Andrew James / unsplash

Gli Stati Uniti hanno appena celebrato il Columbus Day. La festività ricorre ogni anno il secondo lunedì di ottobre e celebra il “presunto arrivo” di Cristoforo Colombo nelle Americhe il 12 ottobre 1492. Si tratta di una data importante per molte comunità italo-americane, mentre è controversa in alcune comunità di nativi americani, e non solo. Per Robert P. Jones, CEO e fondatore del Public Religion Research Institute (PRRI) con sede a Washington DC, esperto di suprematismo bianco e nazionalismo cristiano, il Columbus Day rappresenta “una minaccia costante alla democrazia americana”. Si tratterebbe cioè di una festività federale “in contrasto con la nostra identità di democrazia pluralista”, afferma lo studioso.

Proponiamo qui la traduzione del suo articolo pubblicato dall’agenzia stampa Religion News Service.

Columbus Day, minaccia per la democrazia americana

(rns/ve) 12 sono le festività nazionali federali, ma solo tre celebrano un personaggio realmente esistito, e tra queste c’è il Columbus Day. In quella triade, che comprende la celebrazione delle nascite di George Washington e di Martin Luther King Jr, quella riferita a Cristoforo Colombo rimane peculiare. Diversamente dal primo presidente della nazione e dal leader del movimento per i diritti civili del XX secolo, egli ebbe un legame assai debole con quelli che sarebbero successivamente diventati gli Stati Uniti. Sebbene a molti di noi sia stato erroneamente insegnato che “Colombo scoprì l’America”, egli non mise mai piede all’interno dei nostri confini nazionali e, come sappiamo bene, fino al terzo viaggio, nel 1498, non si era nemmeno reso conto di essersi imbattuto in terre sconosciute agli europei.

Colombo e la "Dottrina della scoperta"
I primi leader degli Stati Uniti, legando la loro storia a quella di Colombo, dotarono magicamente la neonata nazione di un “pedigree” vecchio di 300 anni, una storia di genesi il cui inizio implicava l’opera della Provvidenza. Inventarono un passato che conferiva ai loro attuali possedimenti, e alle loro avide ambizioni, una patina di inevitabilità divina.
La forza di questa strategia narrativa, tuttavia, non risiedeva soltanto negli epici viaggi di Colombo, ma in una dottrina religiosa che egli stesso contribuì a concretizzare: la “Dottrina cristiana della scoperta”. Mentre Spagna e Portogallo intensificavano i loro sforzi volti all’esplorazione e alla colonizzazione, nella seconda metà del XV secolo, re e regine - che si autodefinivano cristiani - cercavano una legittimazione morale che avrebbe permesso loro di adempiere ai loro obblighi nei confronti dei popoli appena scoperti e allo stesso tempo di ridurre gli spargimenti di sangue dei propri sudditi.
Si rivolsero a quella che all’epoca era quanto di più vicino ci fosse al diritto internazionale, e cioè la Chiesa cattolica romana. In una serie di proclami papali tra il 1452 e il 1493 (l’ultimo sospinto dal ritorno di Colombo dal suo primo viaggio nelle Americhe) nacque una nuova dottrina per il nuovo mondo. Mentre le costruzioni teologiche della “Dottrina della scoperta” erano complesse, la loro logica era semplice.

La disumanizzazione in base al credo
La domanda principale per determinare se un popolo appena scoperto avesse diritti umani che gli europei avrebbero dovuto rispettare era questa: “Sono cristiani?”. Se la risposta era negativa il popolo indigeno era classificato come “nemico di Cristo” le cui terre erano soggette a occupazione e i cui beni erano soggetti a confisca. Se gli indigeni opponevano resistenza all’imposizione dell’autorità europea, i nuovi arrivati avevano il permesso della corona e la benedizione della Chiesa per “ridurre quelle persone nello stato di schiavitù perpetua” o per ucciderle senza indugio.
La maggior parte delle controversie intorno alla celebrazione del Columbus Day negli Stati Uniti si sono concentrate sul trattamento barbaro riservato da Colombo alle popolazioni indigene. Queste azioni individuali sono certamente orribili. Ma la mitizzazione di Colombo celebra implicitamente qualcosa di molto più sistemico: la sovrapposizione della “bussola morale” del colonizzatore con la supremazia cristiana europea. Tale orientamento morale e religioso avrebbe guidato l’intero progetto di colonizzazione, e cioè: il genocidio e il trasferimento forzato delle popolazioni indigene dalle loro terre e, successivamente, il rapimento e la riduzione in schiavitù degli africani per trasformare quelle terre in piantagioni redditizie.

Per un approccio inclusivo
Una trentina d’anni fa nacque un movimento, inizialmente guidato da indigeni, che mirava a sostituire la celebrazione del Columbus Day con un giorno dedicato agli abitanti originari di queste terre. L’Indigenous Peoples Day, la Giornata dei popoli indigeni, fu celebrata per la prima volta a Berkeley, in California, nel 1992, nel cinquecentenario dell’arrivo di Colombo nelle Americhe. Da allora oltre una dozzina di Stati federali e più di 130 città hanno adottato la festività.
Nel 2021 Joe Biden è stato il primo presidente statunitense in carica a prendere ufficialmente posizione in merito con un’autorevole dichiarazione a favore di un Indigenous Peoples Day, una Giornata dei popoli indigeni.
Tra rapidi mutamenti demografici - oggi soltanto il 42% degli americani si identifica come bianco e cristiano - e la resa dei conti culturale con l’eredità del razzismo nella storia della nostra nazione, sostituire il Columbus Day con l’Indigenous Peoples Day rappresenterebbe un significativo passo in avanti. Il Columbus Day inevitabilmente celebra tanto il colonizzatore, quanto la sua visione religiosa del mondo.

Una promessa non mantenuta
Come il presidente Biden ha affermato nel 2021 in occasione della sua dichiarazione sulla “Giornata dei popoli indigeni”: “Il nostro paese è stato concepito su una promessa di uguaglianza e di opportunità per tutti - una promessa che, nonostante gli straordinari progressi compiuti nel corso degli anni, non siamo riusciti fin qui a mantenere del tutto. Ciò è particolarmente vero quando si tratta di difendere i diritti e la dignità dei popoli indigeni che erano qui già ben prima dell’inizio della colonizzazione delle Americhe”.
Una “Giornata dei popoli indigeni” riconosciuta dal governo federale sarebbe semplicemente la cosa giusta da fare per onorare tutta la nostra storia, il nostro presente demografico, e le nostre aspirazioni democratiche.

L’origine del suprematismo bianco
Ma c’è un’altra più pressante ragione per cui dovremmo compiere questo passo. L’atteggiamento antidemocratico della “Dottrina della scoperta” è ancora vivo tra noi oggi. Oltre cinque secoli dopo la sua comparsa, il 30% degli americani - inclusi la maggioranza dei repubblicani e degli evangelicali bianchi - è concorde con quell’approccio e con il suo principio centrale, e cioè che “Dio ha voluto che l’America fosse una terra promessa dove i cristiani europei avrebbero potuto stabilire un esempio per il resto del mondo”.
Sebbene gli analisti contemporanei si riferiscano a questa minoranza, sempre più agguerrita e militante, con il termine "nazionalismo cristiano bianco", le radici di questa minaccia alla democrazia risalgono a prima della fondazione della nostra Repubblica, e cioè alla “Dottrina della Scoperta”.

Per una democrazia compiuta
La nostra nazione non ha mai pienamente risposto a questa domanda: “Siamo una terra promessa stabilita da Dio per i cristiani europei o siamo una democrazia pluralista in cui tutti, indipendentemente dalla razza o dalla religione sono su un piano di parità in quanto cittadini?”.
Se vogliamo davvero abbracciare la nostra identità di democrazia pluralista, non possiamo continuare a tollerare la celebrazione di una visione del mondo che erode questo impegno. Se invece ci fermiamo ogni anno per onorare le popolazioni indigene insieme a George Washington e Martin Luther King Jr, ecco, una tale ricorrenza ci riorienterà verso la realizzazione della promessa non ancora mantenuta della nostra democrazia.

(Robert P. Jones è CEO e fondatore del Public Religion Research Institute e autore del recente “The Hidden Roots of White Supremacy and the Path to a Shared American Future” (Le radici nascoste della supremazia bianca e la via verso un futuro americano condiviso). Questo articolo è apparso in origine nella sua newsletterSubstack. Le opinioni in esso espresse non riflettono necessariamente quelle di Religion News Service). (trad.: G. M. Schmitt; adat.: G. Courtens)

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