Apre il 22 gennaio il Forum economico mondiale, che annovera tra gli invitati anche esponenti religiosi. Presente per il Consiglio ecumenico delle chiese il luterano Peter Prove
(Gaëlle Courtens) “Globalizzazione 4.0: Costruire un’architettura globale nell’era della quarta rivoluzione industriale”, è il tema del prossimo meeting di Davos che si terrà dal 22 al 25 gennaio. La rinomata stazione sciistica si appresta a diventare per pochi giorni l’ombelico del mondo. Anche se i presidenti di Francia, USA, Cina, Gran Bretagna e Russia questa volta hanno declinato l’invito del World Economic Forum (WEF), il consueto appuntamento - che riunisce il gotha della politica e della finanza mondiale, ma anche esponenti delle organizzazioni internazionali e non governative, della cultura, della società civile e del mondo delle fedi - stavolta sarà forse tra i più decisivi per le sorti del nostro pianeta e delle generazioni future. È quanto si augura il luterano australiano Peter Prove, direttore della Commissione per gli affari internazionali del Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), che parteciperà al WEF di Davos in rappresentanza dell’organismo ecumenico mondiale con sede a Ginevra.
La sfida del clima
I convenuti al meeting dovranno inevitabilmente confrontarsi con la sfida che il cambiamento climatico rappresenta per l’umanità tutta intera. E non è un caso se il WEF ha invitato l’attivista svedese, la sedicenne Greta Thunberg, che da mesi marina la scuola ogni venerdì per piazzarsi davanti al Parlamento di Stoccolma per rivendicare politiche diverse. Con il suo coraggioso intervento alla recente conferenza internazionale COP24 di Katowice in Polonia, ha dato un insperato impulso alla lotta al riscaldamento climatico, portata avanti soprattutto dai giovanissimi, come le recenti manifestazioni in numerose città svizzere e tedesche hanno dimostrato. Il suo hashtag #FridaysForFuture sui social è diventato virale.
Tra gli attivisti che da anni si impegnano a favore della “salvaguardia del Creato”, figurano anche le chiese cristiane. Il CEC da decenni è in prima linea nella promozione del rispetto della terra e delle sue risorse, ed è con questo spirito che Peter Prove parteciperà al WEF di Davos. Lo abbiamo intervistato.
Peter Prove, in questo consesso assai esclusivo, a cui si partecipa solo su invito, i leader religiosi riescono a farsi sentire?
Dipende. Va detto che il WEF non è in prima istanza un luogo dove si sviluppano politiche. Quello che fa è offrire uno spazio ad individui che ricoprono posizioni e cariche indubbiamente importanti e che hanno un’influenza notevole in molti settori. In questo spazio possono incontrarsi e discutere. E in questo spazio si muovono anche i leader religiosi. Ora, se effettivamente da queste discussioni scaturisce qualcosa di utile dipende dalla volontà dei singoli individui a lasciarsi influenzare da quello che ascoltano e imparano. Personalmente, la mia esperienza mi dice che poter parlare in assoluta libertà ai leader politici, economici e finanziari, è un’opportunità incredibilmente utile. Sono tutti riuniti lì, in un unico luogo, e parlandoci la possibilità c’è, che anche tu riesca ad influenzarli, nella speranza che qualcosa di positivo scaturisca da quello scambio.
Se dalle discussioni scaturisce qualcosa di utile dipende dalla volontà dei singoli individui a lasciarsi influenzare da quello che ascoltano e imparano
Con quale spirito partecipano gli esponenti religiosi?
Nella stragrande maggioranza dei casi gli esponenti religiosi presenti hanno una competenza approfondita in numerosi settori e sono interlocutori assolutamente all’altezza degli altri invitati. Il loro know how, spesso di ampio respiro, se riconosciuto, può andare a beneficio di tutti.
È anche vero che uno dei motivi principali per cui il settore religioso è sempre più sollecitato a dare un suo contributo - non solo nel WEF, ma anche alle Nazioni Unite e con altri partner internazionali - è dovuto all’impatto negativo che hanno movimenti estremisti religiosamente connotati. Quasi che il coinvolgimento delle religioni possa fungere da antidoto a queste derive fondamentaliste, che effettivamente hanno ripercussioni a livello globale. Questa motivazione è assolutamente comprensibile, ma bisogna andare oltre l’elemento negativo, sottolineando gli aspetti positivi che le religioni possono introdurre nella discussione.
Non si tratta semplicemente di dire: “le religioni sono parte del problema, e quindi sono anche parte della soluzione”. Piuttosto bisogna focalizzarsi sul potenziale che indubbiamente c’è nel capitale sociale che dimora nelle comunità di fede. Un capitale sociale capace di cambiamento trasformativo in una prospettiva positiva. Intanto, sul fronte delle organizzazioni mondiali secolari c’è la consapevolezza che - piaccia o no - le religioni ci sono. E soprattutto: non scompariranno. Quindi, meglio entrare in relazione con loro.
In un’era, in cui a livello mondiale stanno riemergendo i particolarismi, i nazionalismi, i protezionismi, i “prima noi”, lei Peter Prove, cosa ritiene che debba venire “prima”?
Metterei al primo posto la lotta al riscaldamento globale. All’umanità tutta intera è rimasto molto poco margine per combattere il peggio: gli scienziati parlano di una decina di anni. L’ultimo rapporto del gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC) parla chiaro. Se decidiamo di affrontare questa sfida, l’economia, l’industria, le società e gli individui dovranno cambiare radicalmente sistemi di produzione e stili di vita, e lo dovranno fare ad una velocità senza precedenti nella storia.
Questa è la priorità numero uno, ma è collegata ad un’altra sfida, a cui ha fatto riferimento. La crisi climatica emergente sta andando di pari passo con un generale ritiro dal multilateralismo. E questo proprio in un momento storico in cui una riposta multilaterale e coordinata è più cruciale che mai.
Penso che il WEF possa essere una piattaforma davvero importante dove affrontare queste tematiche. È un luogo unico, dove leader del mondo della politica, del business e della società civile possono interagire. Il mio augurio è che chiunque sarà a Davos possa tornare a casa e prendersi le responsabilità attinenti al proprio settore, anche se i rispettivi governi non sono intenzionati a fare la loro parte.