Peter Pavlovič (Conferenza delle chiese europee): “Le chiese affrontano la questione sperimentando delle buone pratiche e promuovendo iniziative valide”
(Gaëlle Courtens) A Katowice, in Polonia, dal 3 al 14 dicembre, i rappresentanti di oltre 190 governi del mondo si riuniscono per decidere le regole di attuazione dell’accordo sul clima di Parigi sottoscritto nel 2015. L’appuntamento della COP24 è fondamentale per monitorare l’impegno degli stati nella lotta al riscaldamento climatico. A osservare criticamente l'operato dei politici ci saranno anche dei rappresentanti delle chiese cristiane.
Appelli cristiani
Il Consiglio ecumenico delle chiese (CEC), la Federazione luterana mondiale (FLM), l’alleanza Action by Churches Together e Pane per il mondo hanno lanciato un appello ai leader mondiali affinché intraprendano un’azione rapida e coordinata per tenere il riscaldamento globale sotto l’1,5 °C. “Come organizzazioni religiose siamo molto preoccupate dell’impatto che il cambiamento climatico ha sulle popolazioni marginalizzate, vulnerabili e più povere del nostro pianeta, esponendole sempre di più a emergenze e crisi umanitarie”, scrivono le quattro organizzazioni religiose mondiali nell’opuscolo informativo intitolato “Limitare il riscaldamento globale” e che prende spunto dal recente rapporto del gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (IPCC).
Non c’è più tempo
“Stavolta bisogna fare sul serio e fare presto”, ha detto a Voce Evangelica lo slovacco luterano Peter Pavlovič della Conferenza delle chiese europee (KEK) e segretario dell’ECEN, la Rete cristiana europea per l'ambiente. Alla vigilia della COP24 lo abbiamo intervistato a margine del recente convegno ecumenico svoltosi a Milano sul tema della “Custodia del Creato”.
Peter Pavlovič, che ruolo possono assumere le chiese nella lotta al cambiamento climatico?
Quando si parla del riscaldamento globale non si tratta di un tema per soli politici, tecnocrati o economisti, ma siamo di fronte ad una questione dalle profonde implicazioni etiche. Ed è qui che le chiese - e non solo le chiese, ma le religioni tout-court - hanno qualcosa da dire. Inoltre, la lotta al cambiamento climatico non è nemmeno più un tema appaltato ai soli ambientalisti, ma riguarda direttamente le nostre vite a tutti i livelli.
Con il team ecumenico del CEC lei sarà presente ai lavori della COP24. Quali sono le vostre priorità?
Avremo modo di esprimere le nostre preoccupazioni in un dialogo diretto con i negoziatori e decisori politici. Le chiese hanno affrontato concretamente la questione sperimentando delle buone pratiche e promovendo iniziative valide. Le chiese offrono spazi dove le persone possono incontrarsi, riflettere, parlare e agire. Ecco dove le chiese possono diventare partner interessanti per i politici. Perché le politiche ambientali potranno essere veramente implementate solo se alla base gli stessi individui sono disposti a cambiare stili di vita.
Con quale spirito si accinge ad andare a Katowice?
Come chiese abbiamo due maggiori preoccupazioni. La prima è che bisogna fare presto. L’ultimo rapporto dell’IPCC dice chiaramente che è urgente agire. È stato molto chiaramente ribadito che se nei prossimi 20 anni l’umanità tutta intera non sarà in grado di mantenere il riscaldamento globale sotto l’aumento dell’1,5°C, diventerà molto difficile arginare il peggio. Se non riduciamo drasticamente e subito le emissioni di CO2, andiamo verso un aumento delle temperature del pianeta che avranno un impatto drammatico sul clima e le popolazioni.
La seconda preoccupazione riguarda le modalità dell’azione da mettere in campo. E qui, a mio avviso, siamo di fronte al problema maggiore di questa COP24: tutti devono agire insieme. Tutti i governi, tutti gli stakeholders, tutte le multinazionali, tutte le popolazioni, tutto il pianeta insomma, dobbiamo agire in modo rapido e concertato. Come verrà risolto il gap che c’è fra i paesi ricchi e industrializzati e quelli che sono ancora in via di sviluppo? Come verranno distribuite e condivise le responsabilità? Il problema sarà capire chi deve contribuire quanto e in che forma.
Il futuro del nostro pianeta sembrerebbe irrimediabilmente segnato. Che speranza possono dare le chiese?
La nostra speranza dimora nel fatto che l’impegno personale abbia un senso, e che avrà un senso. Non possiamo vedere oggi quelle che saranno le conseguenze dirette delle nostre piccole azioni individuali. Ma è qui che entra in gioco la speranza. Ed è qui che possiamo imparare dai profeti della Bibbia: la nostra speranza dimora nella nostra fede, nella nostra convinzione, nella nostra perseveranza.
E poi c’è la giustizia. Perché il cambiamento climatico è soprattutto un fatto di giustizia. Giustizia climatica, certo, ma anche economica e sociale. La nostra generazione cosa lascerà a chi verrà dopo di noi? E non parlo solo di sfruttamento delle risorse e di inquinamento, ma di generazioni future. Non dobbiamo mai dimenticare che essere buoni gestori del pianeta è un compito che come cristiani ci viene dalle Sacre Scritture.