Immigrazione bisogna cambiare tutto

Un testo provocatorio del sociologo Stefano Allievi invita a un sano pragmatismo

13 agosto 2018

Il sociologo italiano Stefano Allievi ha recentemente pubblicato un libro dal titolo "Immigrazione. Cambiare tutto" (Laterza). Nel testo - che rispecchia la situazione italiana, ma contiene molte riflessioni che si applicano a tutti i Paesi europei - sostiene che bisogna cambiare lo sguardo con cui osserviamo l’immigrazione, da un lato, e le soluzioni che troviamo al problema, dall’altro. "Non si capisce una barca nel Mediterraneo, se si guarda solo la barca nel Mediterraneo", sostiene, alludendo alla necessità di vedere il fenomeno nella sua complessità, sia a monte che a valle. L'immigrazione, dice Allievi, va compresa a partire da ciò che sta succedendo nel mondo in generale, con i suoi cambiamenti demografici spinti dal vento della mobilità, per poter capire cosa è meglio, opportuno, intelligente e giusto fare a valle, per quanto riguarda le politiche di accoglienza.

Stefano Allievi, nei prossimi decenni avremo un’esplosione demografica. Ciò comporterà spostamenti di massa difficilmente regolabili?
Ci sarà comunque un aumento che potrà cambiare notevolmente in quantità a seconda delle cose che faremo o non faremo, perché la cosa peggiore sarebbe quella di non fare nulla. Ci vogliono delle politiche minimamente lungimiranti, che riguardano per esempio lo sviluppo dei paesi di origine, ma anche la nostra normativa. Se noi non abbiamo delle politiche di ingresso regolare avremo solo delle politiche di ingresso irregolare. Con tutte le conseguenze del caso, delle mafie che ci guadagnano, la crescita del mercato illegale eccetera. Ci conviene? La risposta è no.

Campo di detenzione in Libia

Quali sarebbero le cose che lei suggerirebbe di fare?
La prima è quella di creare dei canali regolari che consentano anche di selezionare le persone che arrivano, perché è giusto protestare contro gli arrivi irregolari. Ma se siamo contrari dobbiamo fare in modo che ci siano degli ingressi regolari. Puoi mettere delle condizioni, dei limiti anche numerici, mentre tutto ciò non lo puoi fare per definizione di fronte a una situazione irregolare in cui non sei tu, stato, o tu Unione Europea, che governi, ma governano altri. Le mafie, per esempio. Questa è la prima, e può essere fatta sapendo qual è l’andamento demografico rispettivo dell’Europa e dell’Africa. Noi abbiamo in Europa tre milioni di persone all’anno che vanno in pensione senza essere sostituite da nessuno. Se sappiamo che nelle regioni del nord Italia per ogni under 15 ci sono due over 65 questo ci dice qualche cosa anche sulla sostenibilità stessa di un sistema. In questo caso una quota regolamentata di immigrazione non è un problema, ma un pezzo della soluzione.

Abbiamo in Europa tre milioni di persone all’anno che vanno in pensione senza essere sostituite da nessuno

La seconda è senz’altro superare la distinzione datata tra richiedenti asilo e migranti economici. Fino a ieri erano tutti migranti economici. Poi abbiamo inventato un’impalcatura complessa che è frutto certo della Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati, risalente al 1951, ma che allora aveva altri numeri, molto modesti, altri tipi di provenienze e altri implicazioni. Impedendo alle persone di venire regolarmente le obblighiamo a dichiararsi richiedenti asilo, anche se non lo sono. Questo vuol dire aver inventato un’impalcatura costosa, malfatta, inutile che non ha risolto il problema, ma che lo accentua. Si capisce la fase di emergenza, ma ormai una volta capito che non è più un’emergenza bisogna trovare dei meccanismi ordinari.
La terza cosa è la gestione a valle, l’accoglienza. Ancora non esistono meccanismi di valutazione del lavoro sin qui fatto.

Corridoi umanitari in Libano (Segni dei Tempi RSI La1)

Nel libro lei indica tre parole chiave: mobilità, pluralità e mixité. La società multiculturale è fallita? È un modello che non funziona, bisogna crearne un altro?
Intanto credo che la società multiculturale sia esistita molto meno di quel che si racconta. Sentire Cameron dire che è fallita la società multiculturale in Gran Bretagna può avere un senso; sentirselo dire dalla Merkel quando la società multiculturale in Germania non è mai esistita, è un’altra cosa.
Delle tre parole chiave una è mobilità: ci si muove non solo fisicamente, ma si transita anche attraverso le identità, non si è prigionieri delle identità. In una società complessa come la nostra, una cosa di cui ci avvantaggiamo in molti è esattamente di non essere prigionieri di un’identità, di poterla cambiare, poter aggiungere e togliere delle cose. Mentre un’idea di società multiculturale rigida, dove si finanziano le comunità etniche e religiose, crea delle rigidità in una situazione dove invece anche il mercato incoraggia la mobilità e la flessibilità. Allora no a una società di comunità rigide di cui saremmo in qualche modo prigionieri; e sì a capire invece - proprio perché siamo più mobili anche fisicamente,  a cominciare da noi italiani, in un Paese dove gli emigranti sono tornati a essere più numerosi di chi immigra - che abbiamo interesse ad avere delle strutture che garantiscano diritti minimi a chi si muove. L’Europa lo fa al suo interno perché ha la libera circolazione.

Abbiamo interesse ad avere delle strutture che garantiscano diritti minimi a chi si muove

E poi tenere conto delle altre due parole. Una società più mobile è una società più plurale in cui ci sono diversità che prima non c’erano, anche di gusti e di interessi; non c’è bisogno di scomodare l’immigrazione per capire questo, basti pensare alla trasformazione dei modelli familiari in occidente a prescindere dall’immigrazione.
L’altra è proprio mixité. Io cito il fatto più clamoroso, che in Italia ormai sono più del 10% i matrimoni misti, il che vuol dire che ci si incontra tra diversi e ci si piace. La diversità è un valore interessante che non ci negheremmo volentieri.

Immigrazione, bisogna cambiare tutto (Segni dei Tempi RSI La1)

Nel libro cita la rubrica “Come sarebbe il mondo se” ospitata dall’Economist, dove è stato scritto che un mondo che prevedesse la libera circolazione delle persone sarebbe 78 trilioni di dollari più ricco. Ma il mondo non va proprio nella direzione opposta, rafforzando la chiusura?
La provocazione dell’Economist è interessante perché pone un problema che non è astratto. Sono convinto che è bene che le frontiere restino, se però concepite come dovrebbero essere: e cioè non muri, ma luoghi anche di attraversamento. Le frontiere identitarie, culturali, linguistiche, esistono. L’importante è poterle transitare. Sono libero, per esempio, di imparare altre lingue e di poterle parlare in giro. Non sono prigioniero della lingua o dell’identità in cui sono nato. Bisognerebbe dunque pensare, in un mondo in cui si è più mobili, a un “set” di diritti minimi, diciamo così, e a delle condizioni chiare e anche rigide da rispettare, per esempio per l’acquisizione della cittadinanza.

Cosa possiamo dunque auspicare?
Personalmente vedo con favore che chiunque parli di immigrazione sia costretto dalla prova dei fatti. Sano pragmatismo. Chiunque abbia proposte, ebbene, che le metta alla prova della gestione pratica. Sono convinto che questo aiuterebbe ad accorgersi che alcune parole d’ordine non bastano e non funzionano. Il controllo dei confini è una cosa che va fatta, ma bisogna farlo con contezza di quello che succede, e poi chiarendosi sul “per fare che cosa” e “in che modo”. (intervista a cura di Claudio Paravati, in “Confronti” del giugno 2018; adat. P. Tognina)

Stefano Allievi
Immigrazione. Cambiare tutto
Laterza, 2018

Aquarius la nave della speranza (Segni dei Tempi RSI La1)

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