Liliana Segre una bambina nella Shoah

Deportata ad Auschwitz dopo essere stata respinta al confine svizzero di Arzo, dopo decenni di silenzio è diventata una delle voci più ascoltate e potenti sugli anni bui della storia europea

26 gennaio 2018

Sandro Esposito RSI

(ve/stampa) Liliana Segre, deportata ad Auschwitz all'inizio del 1944 e sopravvissuta ai campi di sterminio, è stata nominata, la scorsa settimana, dal presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, senatore a vita. “La vita è molto strana", ha dichiarato Segre reagendo alla nomina, "sono così vecchia che purtroppo mi ricordo delle leggi razziste di ottant'anni fa. Allora la mia colpa era quella di essere nata. Oggi mi viene riconosciuto come merito".

Deportata a 13 anni
Liliana Segre aveva tredici anni quando, assieme al padre Alberto, fu condotta il 30 gennaio 1944 al binario 21 della Stazione Centrale di Milano. Da lì i due furono deportati ad Auschwitz assieme ad altri 600 ebrei. Tra quelle centinaia di persone, solo in ventidue tornarono. Liliana tra questi, mentre il padre fu ucciso ad Auschwitz.

Testimone della shoah
Da anni Liliana Segre dedica il suo tempo e il suo impegno per raccontare alle nuove generazioni la tragedia della persecuzione nazifascista. Ha voluto la nascita del Memoriale della Shoah di Milano, luogo che sorge sul binario 21 da cui lei stessa fu deportata, e ha fatto mettere sul muro all’entrata la parola Indifferenza per ricordare ai visitatori che quella fu una delle più grandi macchie della storia del Novecento: l’indifferenza della società civile di fronte al destino degli ebrei e degli altri perseguitati.

Liliana Segre. Lo stupore per il male altrui (Segni dei Tempi RSI La1)

Liliana Segre aveva tredici anni quando, arrivata al confine svizzero di Arzo, fu respinta dalle guardie di frontiera. Quel giorno iniziò per lei un viaggio che la portò dapprima nel carcere di San Vittore a Milano e poi nei campi di sterminio nazisti. Molti anni dopo, Liliana ha deciso di raccontare la sua storia.

Liliana Segre, come valuta il Giorno della Memoria?
Noi che abbiamo vissuto la Shoah, non dovevamo certo aspettare questa Giornata per ricordare. Tuttavia bisogna sottolineare che il Giorno della Memoria ha risvegliato interesse per l’argomento e soprattutto messo gli insegnanti in condizione di occuparsene. Poi si possono dire tante cose. Forse è vero che negli anni si è arrivati a un’overdose di eventi. Allo stesso tempo, il pensiero che una donna eccezionale come Elena Loewenthal affermi che è necessario dire basta (il riferimento è al libro di Elena Loewenthal, "Contro il giorno della memoria", add editore, ndr.), per chi come me ha dedicato alla trasmissione della memoria venticinque anni di vita, pone interrogativi terribili, sensazioni agghiaccianti. Accade sicuramente che alcune manifestazioni siano organizzate da persone di buona volontà ma prive di conoscenza. Ma noi raccontiamo la nostra storia, poi come viene utilizzata non dipende da noi.

Per tanti anni lei ha scelto di rimanere in silenzio. Come è maturata la decisione di iniziare a parlare?
Sono tornata da Auschwitz molto giovane e mi sono ritrovata diversa dalle altre ragazze della mia età. La mia sofferenza non era facile da condividere. Fino a che non ebbi la fortuna di trovare l’amore. Non avevo ancora diciott'anni quando incontrai mio marito Alfredo e fu per la vita. A quel punto, egoisticamente, tutto ciò che volevo fare era pensare a lui, ai miei figli, a quello che rappresentava una casa che potessi chiamare mia, per la prima volta dopo Auschwitz. Per anni mi sono difesa. Poi alcuni avvenimenti mi fecero cambiare prospettiva. Diventai nonna, il traguardo che più di ogni altro per me rappresentava la compiutezza della vita. E uscì il "Libro della Memoria" di Liliana Picciotto. Nella preparazione del volume ero stata molto sollecitata a condividere i miei ricordi. Quando vidi quella sorta di elenco telefonico, con i nomi di tutti i deportati, dei pochissimi sopravvissuti, fui colpita. Erano trascorsi più di quarant’anni e non avevo fatto niente per quei morti. Cominciai a interrogarmi su come rimediare. Non ero insegnante, non mi capitava di avere un pubblico a cui rivolgermi. Non sapevo nemmeno se mi sarebbe uscita la voce. La prima volta che parlai mi trovavo con un gruppo a casa di amici. Poi fu come una valanga.

Emanuele Giacopetti RSI

Lei ha sempre considerato gli studenti il suo pubblico più importante. Come sono cambiati in questi anni?
Forse i giovani sono più preparati di prima, ma penso di essere innanzitutto cambiata io, come è giusto che sia se ci si vuole rivolgere alle nuove generazioni. Con i ragazzi continua a svilupparsi una forte empatia. Non posso dire di trovare sempre la stessa sintonia con gli insegnanti. Alcuni sono splendidi, altri sembrano solo avere fretta di sbrigare il programma, talvolta anche influenzati, mi pare, dal proprio orientamento politico. E con quella classica indifferenza che per me è diventata la parola simbolo di ciò che accadde.

Indifferenza è infatti il termine che ha voluto fosse inciso all’ingresso del Memoriale della Shoah della Stazione centrale, uno dei progetti per cui lei più si è spesa in questi anni...
Io sono nata a Milano. Ero una bambina fortunata. Conoscevo la stazione perché da lì andavo al mare, ai monti. E poi proprio in quella stazione, nella mia città, è successo ciò che è successo. Ecco perché dovevo farlo. C’è un altro luogo in cui invece non sono mai voluta tornare: Auschwitz. Semplicemente non posso. Me lo hanno chiesto molte volte, e io stessa, che non ho una tomba dove piangere il mio papà e i miei nonni, vorrei tanto andare a posare laggiù tre sassolini per loro. Ma non ne ho la forza.

Emanuele Giacopetti RSI

Lei in passato ha espresso perplessità sui “Viaggi della Memoria”...
Oggi i genitori vogliono tenere i ragazzi protetti, al riparo da qualsiasi sofferenza. Così, dopo aver visitato i campi, gli studenti a Dachau vanno in birreria, mentre a Cracovia pare ci sia una discoteca. “Gite” le chiamano. “Vestitevi leggeri, così da avere una parvenza di comprensione di cosa fosse il freddo, digiunate per un giorno, per capire almeno parzialmente la fame”, così bisognerebbe dire loro. Ma quale scuola organizzerebbe un viaggio del genere? Il tempo passa, ed è impietoso. Man mano che la storia si allontana, tutto diventa una Disneyland dell’orrore. La trasmissione della memoria si fa sempre più difficile. Basta pensare a ciò che i negazionisti riescono a dire mentre noi siamo ancora vivi. Cosa accadrà quando non ci saremo più? (da Pagine ebraiche, intervista di Rossella Tercatin)

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