La fine dell'esilio dei cristiani?

I cristiani della pianura di Ninive attendono con impazienza la liberazione di Mosul e la fine del terrore jihadista

25 ottobre 2016

(Gilgamesh Nabeel e Ammar Al Shamary) Due anni fa, alla vigilia dell'attacco dei combattenti dello Stato islamico a Karemlash, una città 18 miglia a sud est di Mosul, il prete cattolico caldeo Martin Banni raccolse gli elementi dell'eucarestia, i documenti ufficiali della chiesa e alcuni effetti personali. Oltre 100.000 cristiani della regione erano già andati via. Lo stesso arcivescovo di Mosul aveva implorato loro di fuggire. “I combattenti curdi ci hanno lasciati soli, eravamo pochissimi e disarmati e non potevamo far nulla per fronteggiare lo Stato islamico”, ha detto Banni. “Siamo fuggiti”.

La battaglia per Mosul
Mentre questa settimana le forze irachene iniziano la tanto attesa offensiva per riprendere Mosul e le città vicine dalle mani dello Stato islamico, i cristiani iracheni sulla piana di Ninive sperano che il loro esilio giunga presto alla fine. “Non ho dormito, sto sveglio tutta la notte per seguire i notiziari”, afferma Abu Adrian, un insegnante di Alqosh, un focolaio di resistenza cattolico sulle montagne 30 miglia a nord di Mosul. “Speriamo di vedere le nostre città liberate il più presto possibile, affinché dopo questo lungo conflitto la nostra gente possa far ritorno ai propri luoghi e alle proprie case”.
Alqosh è sfuggita al controllo dello Stato islamico e dal 2014 ha offerto ospitalità a circa 600 famiglie cristiane in fuga dalla persecuzione più a sud. Lì e altrove nell'Iraq settentrionale la situazione per i cristiani è diventata disperata, persino insostenibile. Mancano lavoro e denaro e intere famiglie, fino a 10 persone, si dividono una tenda o un'unica stanza. Molti sono fuggiti portandosi dietro soltanto i documenti di identità e i vestiti che avevano addosso.

Un prete in fuga
“Sono riuscito a prendere la mia carta di identità, il mio passaporto, il telefonino e il portatile”, ha detto Banni, profugo a Erbil, nel Kurdistan iracheno, dal 2014. “Non pensavamo che sarebbe stata una partenza senza ritorno. Pensavamo che ci sarebbero voluti un giorno o due”. Alcuni di questi cristiani dicono di aver quasi perso la speranza di poter ritornare un giorno. “C'era un senso di frustrazione tra la gente che si interrogava sulla fattibilità di restare in queste condizioni per due anni o più”, ha aggiunto Banni. “Inoltre si chiedevano quanto tempo ci sarebbe voluto per ricostruire le loro città dopo la liberazione, visto che era passato così tanto tempo e non erano ancora state liberate”.

Il futuro dei cristiani
La frustrazione non ha fatto che crescere con la liberazione di Falluja e di Ramadi da parte delle forze governative irachene negli ultimi 18 mesi, mentre Mosul e le città vicine continuavano a restare sotto il controllo dello Stato islamico. Di conseguenza Banni e altri hanno sentito il bisogno di avviare a Erbil la campagna “Liberate Mosul” per conservare le deboli speranze della comunità. La campagna è diventata virale sui social media a livello mondiale, ma non ha dissipato il senso di pessimismo tra i cristiani riguardo alla possibilità di poter un giorno tornare a casa. E adesso la strenua resistenza dello Stato islamico alle forze irachene lascia intendere che gli esiliati potrebbero dover attendere ancora mesi prima di poter ritornare. “Non ho piani”, ha detto Samer Elias, scrittore cristiano iracheno 42.enne di Mosul che vive nella città curda di Dahuk. “Il futuro per noi cristiani appare molto cupo e oscuro”. Resta da vedere che cosa troveranno i cristiani al loro ritorno. Molti, come Elias, non sanno nemmeno se le loro case esistono ancora.

Ricostruire ospedali e scuole
Banni ha riconosciuto che alcuni del suo gregge sono troppo stremati dagli ultimi due anni e sono pessimisti riguardo al futuro. Alcuni hanno accarezzato l'idea di andare in Europa o altrove piuttosto che ritornare a casa. Ma il sacerdote 25.enne, ordinato a Erbil a settembre invece che nella sua amata Mosul, ha già un elenco di priorità per la ricostruzione di ospedali e scuole. “È importantissimo, perché permette alla nostra gente di ritornare nei propri luoghi e vivervi di nuovo in pace”, ha detto. “La liberazione della regione sta finalmente avendo luogo e la prospettiva di tornare a casa è più reale che mai”. Malgrado tutto ciò che è accaduto e il modo in cui la sua comunità è stata trattata, spera che in futuro le cose saranno diverse. “Vogliamo affrontare i nostri problemi e risolverli, non fuggire da essi”, ha detto. “Un popolo che ha sopportato tutte queste difficoltà non può essere spezzato”.

Autentici figli dell'Iraq
Emad Sabeeh Georges, 36 anni, direttore vendite attualmente a Erbil, dice di voler ritornare alla sua nativa Qaraqosh perché richiamato dal suo passato e da quello dei suoi antenati. Le forze irachene stanno combattendo per riprendere il controllo della città, perciò la sua attesa non dovrebbe essere più molto lunga a questo punto. “Questa è la mia patria, la terra dei miei antenati”, ha detto. “Non l'abbiamo conquistata o presa con la forza, siamo gli autentici figli dell'Iraq e abbiamo imparato a vivere in pace con gli altri. Insisto nel voler ritornare, restare, ricostruire e cambiare la mentalità estremista intorno a noi”. (RNS; trad. it. G. M. Schmitt/voceevangelica.ch)

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